Esperienza distorta dell'Assoluto

05.03.2024
di don Salvatore Rinaldi  Chiara Fanchitti

Tutti abbiamo bisogno come l'ossigeno di essere accolti, ben voluti, amati, questo bisogno diviene dirompente. Per essere accettato e avere almeno la sensazione di essere ben voluto, il preadolescente è davvero pronto a tutto, a meno che abbia raggiunto quella maturità interiore che gli permette di camminare libero tra gli altri. Se per qualsiasi ragione l'affettività è stata carente, sarà più forte il bisogno di dipendenza. Se sono sicuro di me stesso, perché l'affetto ha coperto e curato varie zone d'ombra, sono più capace di slanci, con relativi errori e correzioni di tiro. I ragazzi che crescono, quindi, al di là dell'età (i tempi di crescita si differenziano sempre più) si sentono grandi.

Quando cercano di emanciparsi dalla famiglia, diventa stringente il riconoscimento da parte del gruppo e dell'altro in genere. Fino ai dodici anni circa è forte l'identificazione con la famiglia, nel bene e nel male. Ci si identifica, si pensa come pensano i genitori, o, meglio, come si pensa che pensino i genitori. Dopo questo non basta più, perché si vuole pensare con la propria testa; ed è una cosa buona. Se ciò avviene drasticamente, l'elastico può rompersi e il senso di appartenenza alla famiglia sparire troppo in fretta, quando ancora non si ha la capacità di costituire legami stabili con i coetanei e con gli altri. 

Fin dall'adolescenza il riferimento a un qualcosa di rituale è forte e impegnativo. È magari scartata l'ipotesi di andare in chiesa, di partecipare ad attività formative importanti, però si rivela stringente la necessità di scoprire riti che rendano manifesto il mistero che si cela nel più profondo dell'uomo. C'è un luogo che ha preso piede e, ormai oggi, non solo tra i giovanissimi, ma anche tra i quarantenni e oltre: la discoteca. Le discoteche denotano il luogo della fuga, del divertimento affine al mistero: perché esco dal giro diurno, da me, spesso posso assumere sostanze che producono artificialmente l'oblio di me stesso ed entrare a pieno titolo nel giro notturno, avvolgente di uno strano fascino. Uno dei problemi seri delle discoteche non è tanto la musica, quanto il resto, che, sommato alla musica diviene totalizzante. La musica picchia nello stomaco, il cuore batte al ritmo delle percussioni, i pensieri fuggono via, e allora si, allora posso dire: io sono. Io sono perché non penso. 

Fatto sta che, terminato l'impasticcamento acustico, visivo psichedelico, farmacologico, finisce tutto. E l'Io resta solo con la sua solitudine. Non c'è niente. La discoteca-alcol-droga diventa l'esperienza (distorta) dell'assoluto, ed è cercata come ricerca dell'assoluto. La necessità dell'evasione si esplicita in molteplici esperienze: un certo tipo di musica, l'alcol, gli psicofarmaci. Anche il "non pensare" è un rifugio. Poi abbiamo la droga. Drogarsi vuol dire rispondere a un bisogno profondo in modo sbagliato. Gli adulti devono riconoscere questo bisogno. È vero: ci sono droghe pesanti e droghe leggere; tutte (questo è da sapere) sono nocive e ledono il cuore più profondo della persona, la sua consapevolezza, la capacità di instaurare dialoghi significativi. L'esito è, di nuovo, una solitudine ancora più grande e fonte di sofferenza. La prevenzione, in questo come in altri casi, consiste nel lavoro culturale a lungo termine di colmare di senso e di significatività gli spazi vuoti occupati dalla noia e, in definitiva, tutta l'esistenza.

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