10 anni di Francesco. La via della fraternità e un impegno da coltivare

13.03.2023

Dieci anni di Francesco. Il Papa delle prime volte. Il primo con il nome del poverello di Assisi che cammina «davanti e in mezzo» a noi. Ama questa immagine, il 266esimo Vescovo di Roma, e ce l'ha ripetuta spesso esortando a vivere con gioia e coinvolgimento la vita della Chiesa e delle società di cui siamo parte senza dimenticare che non siamo Dio e che la parte dei poveri – i piccoli, i deboli, i periferici, i senza potere e senza voce – è sempre la parte giusta. E in questi primi dieci anni assieme a Francesco quante prove abbiamo attraversato, e ancora ci impegnano, chiedendoci conto della speranza, e della fede e dell'amore necessari per cambiare la realtà non per arrogante supponenza, ma per rinuncia all'indifferenza e alla rassegnazione.

C'è un'immagine su tutte che riempie di significato questi dieci anni ed è quella di Francesco, solo, sotto la pioggia in una Piazza San Pietro deserta, con sulle spalle il peso di tutto mondo e la sofferenza delle migliaia di vittime che il Covid ha sparso in tutto il mondo. Un'immagine dirompente, forte, evocativa del peso della croce che Cristo, da solo portò sul Calvario per la salvezza di tutti.

In questi anni, con noi e per noi, alla luce delle fede e dell'esperienza d'umanità e della ragione che sono alleate della fede, il Papa ha saputo vedere lontano e vicino: le grandi questioni dei popoli e del pianeta, che ci è «casa comune» ma è segnato da incuria e guerra, e tutte le urgenti domande esistenziali della nostra modernità: da quelle poste dalla tecnoscienza e da un'«economia che uccide» a quelle anche apparentemente minuscole di minime comunità e di singole persone.

Ci ha messi in cammino perché l'autentica dimensione missionaria e sinodale della Chiesa non è la chiusura e l'arroccamento, ma l'«uscita» da sé (e dalla debole fedeltà del "si è sempre fatto così") e la testimonianza che tocca e attrae.

Ci ha ricordato, insistentemente, e non solo nei giorni più drammatici della pandemia di Covid, dove guardare quando il dolore si fa forte e l'assedio del male assillante: all'infinito sacrificio e all'infinita redenzione della croce di Cristo. E a tutti, pure a chi Cristo non l'ha incontrato e riconosciuto, ha rammentato che «nessuno si salva da solo» e che non c'è errore più grave del «pensare di rimanere sani in un mondo malato».

Ci ha richiamato alla saggezza di non confondere il male e il bene e di non ignorare il diabolico divisore e, insieme, a non sentenziare con pesante leggerezza sulla vita e sulla fede degli altri. E ci ha chiesto di non dimenticare mai che la misericordia del Padre abbraccia davvero tutti e, perciò, ci ha guidato a dire, evangelicamente, assieme a lui stesso, «chi sono io per giudicare?». Non perché siamo inchiodati in una notte in cui tutto è uguale, ma perché dalla notte si esce abbandonando la pretesa di porre presuntuosi limiti alla «grazia di Dio, che si presenta in modi davvero sorprendenti».

Ci ha spronato a smettere i deliri dello «scarto» e a praticare la fraternità e l'amicizia sociale in una società globale dove pochissimi hanno troppo, pochi tanto e tantissimi troppo poco; dove i poveri non possono camminare il mondo e naufragano mortalmente nei mari; dove la custodia dell'altro e della Terra «che ci precede e che ci è stata data» sembra purtroppo ai reggitori delle nazioni un lusso che non possiamo permetterci, tanto che si continuano a idolatrare una sicurezza (solo per noi) dall'orizzonte basso e insostenibile e un progresso che non è vero ed equo sviluppo.

Infine, e per principio, ci ha parlato di pace. Ha detto: "Per questi dieci anni, regalatemi la pace". E si è ostinato a seminarla, costruendo ponti di dialogo o continuando a progettarli con chiunque sia disposto ad aprire mente, cuore e braccia o anche solo, realisticamente, minimi spiragli: dal Grande Imam di al-Azhar al Governo cinese, dalla straziata Colombia ai persino più straziati Congo e Sud Sudan, dai leader delle democrazie occidentali al presidente russo. Senza distogliere neanche per un momento sguardo e sollecitudini dalla guerra in Ucraina e dalle sofferenze delle genti che la subiscono e, insieme, a tutte le altre guerre e sofferenze a cominciare dalle tragedie di Yemen e Siria. C'è da disarmare la storia, e c'è da farlo proprio adesso.

I verbi usati sinora sono stati al passato, prossimo, ma passato. Viene naturale farlo, ed è anche giusto quando si considera un importante tratto di strada percorso e si intende dire grazie a colui che ha dato direzione e ritmo al cammino. Ma il modo migliore per dire grazie a papa Francesco è ricominciare, subito, ad accogliere e coniugare quei verbi al presente e al futuro. Un grande e fraterno lavoro da continuare: sotto gli occhi di Dio, in questo mondo.

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