Antonio Gabriele e lo sguardo dell'Arpinate

16.03.2021

di Rocco Zani

Nel responso dell'argilla - e del vulcano che ne è paternità indolente - sopravvive il volto arpinate, ricomposto per pieghe millenarie, per soprusi, per aliti di storia.

"Se la vita è quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla"

- scriveva Garcìa Màrquez- Antonio Gabriele sembra cogliere un fotogramma di memoria che è ricchezza comune, indissolubile finanche nei cicli e nell'accavallarsi della conoscenza. Non già un ritratto dell'Arpinate bensì lo sguardo dell'uomo - la sostanza - sopravvissuto alla tirannia e alla smemoratezza delle genti, all'arroganza delle dinastie o alla pietà del mare.

Antonio Gabriele affida al volto di Cicerone il dovere di un racconto che è, nella sua implacabile conflittualità, storia d'arte e storia di coscienze. E lo fa con la misura rigorosa del segno, con una materia lieve ma affabulatoria, lasciando al "non detto" o all'abisso dell'occhio la traccia indissolubile dell'esistenza. E pertanto del sogno. Uno sguardo solo in apparenza seriale - ogni opera è figliolanza autonoma di misture - eppure capace, da solo, di destabilizzare l'osservazione, di proporre reticoli riflessivi, di ospitare in un solo luogo - il volto, per l'appunto - la presunzione del pieno e l'incanto del vuoto. E non è un caso, forse, che questa narrazione tocchi ad Antonio Gabriele che di questa terra - della terra di Cicerone - conosce il suono e l'ansia, le pieghe del fiume, il tornante celato nel lauro. Ovvero le parole che il vento rimbalza da millenni tra le torri della città vecchia.

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