"Carlo III Demolisce la Leggenda dei Mille: La Realtà Occulta del Risorgimento"

11.04.2025

di Mario Garofalo

Le recenti parole di Carlo III d'Inghilterra, pronunciate con l'eleganza tipica della monarchia britannica ma con la forza di un ceffone storico, hanno mandato in frantumi l'idillio patriottico costruito ad arte per oltre un secolo. Davanti a un Parlamento italiano ancora avvolto nella nebbia di un Risorgimento mitizzato, il sovrano ha tolto il velo su una delle più grandi operazioni di maquillage della storia moderna: l'Unità d'Italia.

Per decenni ci hanno venduto il mito di Garibaldi e dei Mille come una fiaba romantica: l'eroe dei due mondi che, con una manciata di volontari, libera il Sud dal giogo borbonico. Una narrativa da libro di scuola, rassicurante e digeribile. Ma oggi, questo racconto si sgretola sotto il peso dei fatti, non delle opinioni. Il tempo — quel giudice implacabile — ha finalmente dato voce a ciò che i meridionalisti e gli storici non allineati gridano da tempo: i Mille non erano mille, e Garibaldi non era affatto solo.

L'intervento britannico durante lo sbarco a Marsala non fu una coincidenza, ma un preciso atto di guerra mascherato da neutralità. Le navi inglesi vegliavano silenziose, pronte a garantire che tutto andasse secondo i piani. Non i piani italiani, sia chiaro, ma quelli di un'Inghilterra che vedeva nei Borbone un ostacolo ai propri interessi strategici nel Mediterraneo. E che dire del sostegno francese? Altro che solidarietà ideologica: Parigi puntava a ritagliarsi un'Italia debole e facilmente influenzabile, funzionale al suo equilibrio europeo.

Carlo III ha fatto ciò che storici e politici italiani non hanno mai avuto il coraggio — o l'onestà — di fare: ricordare che l'Unità d'Italia fu una costruzione geopolitica, non un moto spontaneo del popolo. I Savoia, dinastia in bancarotta morale e finanziaria, furono lo strumento perfetto: deboli, ricattabili, ma formalmente "italiani". Una marionetta perfetta da insediare nel nuovo teatrino dell'Italia unita.

E poi ci sono loro, i "padri nobili" del Risorgimento: Cavour, Mazzini, Garibaldi. Tutti passati da Londra, tutti influenzati — e diremmo oggi "formattati" — da un sistema che non vedeva l'unità come un fine nobile, ma come un mezzo per soggiogare economicamente e politicamente una penisola frammentata. Altro che eroi: pedine di un gioco ben più grande.

Emblematica l'ovazione ricevuta da Garibaldi a Londra nel 1864, che Carlo III ha citato con sottile sarcasmo. Mezzo milione di britannici accorsi ad acclamare il "liberatore". Ma liberatore di chi? Di certo non dei meridionali, che dalla caduta dei Borbone in poi hanno conosciuto solo miseria, emigrazione e saccheggio industriale. L'Italia unita, come scriveva Dostoevskij, fu un regno improvvisato, una costruzione artificiale destinata a servire interessi altrui più che quelli dei suoi cittadini.

Il monito del re inglese dovrebbe risuonare forte nelle orecchie di chi ancora celebra con orgoglio cieco l'epopea risorgimentale. È ora di smascherare l'inganno, di ammettere che la nostra "unità" è nata più da un patto col diavolo che da un patto col popolo. L'Italia è stata, fin dal principio, una nazione cucita con filo straniero. Altro che patria: un laboratorio coloniale sotto bandiera tricolore.

La Storia, quella vera, non è fatta di statue da lucidare ma di verità da scavare. E ora che la favola dei Mille è stata smontata, non ci resta che fare i conti con la realtà: il Risorgimento fu un colpo di Stato internazionale travestito da epopea nazionale.

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