Celestino V e il mistero del “gran rifiuto”: viltà, santità o manovra?

19.05.2025

di Mario Garofalo

Mi chiedo spesso, di fronte alle grandi svolte della storia ecclesiastica, se esista davvero una verità chiara, lineare, accessibile. O se, piuttosto, ciò che chiamiamo "verità" non sia altro che un mosaico incompleto di indizi, silenzi, reticenze. È questo il pensiero che mi accompagna ogni volta che rileggo la vicenda di Celestino V, il papa del cosiddetto "gran rifiuto". Ma fu davvero un rifiuto? E, se sì, cosa rifiutò veramente?

Era il 13 dicembre 1294 quando Pietro del Morrone, eremita d'origine contadina, già monaco e fondatore dei Celestini, pose fine al suo pontificato durato appena tre mesi e quindici giorni. Perché? Stanco? Confuso? Spaventato? Oppure perfettamente lucido, e in grado di compiere un gesto di assoluta coerenza spirituale? O ancora: fu persuaso — o forse manipolato — da menti più esperte, più ambiziose, più politiche?

Davanti al consesso dei cardinali, Celestino scese dal trono, depose la tiara, l'anello e il mantello, e si rivestì della sua tonaca da asceta. Un gesto di una teatralità quasi mistica. Ma fu davvero solo mistica? O fu anche calcolo? Quale peso ebbe, in quella scena, la presenza del cardinale Benedetto Caetani, futuro Bonifacio VIII, che secondo alcune fonti gli suggerì — o gli fece credere — che la rinuncia era possibile, giuridicamente fondata, teologicamente lecita?

E ancora: fu davvero Celestino a decidere? O furono altri a decidere per lui, sfruttando la sua debolezza, la sua ingenuità, o persino il suo desiderio di santità?

Dante lo condanna con durezza, definendolo colui "che fece per viltade il gran rifiuto". Ma fu viltà, o fu coraggio? È più facile cedere al potere o sottrarsi ad esso? Un uomo che ha vissuto tra i monti, nella solitudine della preghiera, è veramente in grado di affrontare l'ingranaggio della Curia, le pretese dei monarchi, le trame dei cardinali?

Altra domanda: se davvero il suo ritiro fu voluto, perché portò con sé alcune insegne papali? Forse non era convinto del tutto della legittimità della rinuncia? Forse pensava di poter servire in altro modo, come "papa spirituale"? O temeva che il suo successore potesse tradire la Chiesa? O, più semplicemente, non volle abbandonare tutto ciò che rappresentava la sua missione, anche se compiuta solo in parte?

E poi c'è la questione più oscura, la sua fine. Bonifacio VIII lo fece arrestare. Ma perché? Per precauzione? Per timore? Celestino stava davvero cercando rifugio in Grecia? O voleva allontanarsi per non intralciare? E perché rinchiuderlo a Fumone, in un castello cupo, sorvegliato come un pericoloso traditore, fino alla morte? Un semplice asceta può essere una minaccia per un papa in carica?

Sono domande scomode, certo. Ma legittime. Perché ogni gesto umano, soprattutto se compiuto ai vertici della Chiesa, merita di essere compreso nella sua profondità. E quella di Celestino V non fu una scelta marginale: fu una rottura, un precedente, un interrogativo rimasto aperto per secoli.

Fu il primo papa a rinunciare spontaneamente. Per questo lo guardiamo con curiosità, con sospetto, ma anche con una certa nostalgia. Nostalgia di una Chiesa che, forse, in quel gesto intravedeva la possibilità di un'alternativa al potere, alla diplomazia, all'apparato. Ma è davvero così?

O siamo noi, uomini di oggi, a proiettare in quel gesto le nostre domande, le nostre inquietudini, le nostre utopie?

Forse non avremo mai una risposta definitiva. Ma forse è proprio questa la funzione più profonda della storia della Chiesa: non rassicurarci, ma costringerci a pensare. E Celestino V, ancora oggi, ci guarda in silenzio dalla sua tomba a L'Aquila, con quella maschera d'argento sul volto. È una maschera di pace? O di mistero? Forse entrambe.

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