Come pietre che rimbalzano sull'acqua

14.05.2021

Cerchi di teologia del limite per vivere il nuovo presente

Cari amici di QuintaPagina, questa settimana siamo con don Giuseppe Pani, Sacerdote dell'Arcidiocesi di Oristano, è docente stabile di Teologia Morale presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Sassari-Tempio Euromediterraneo. Giornalista pubblicista, membro dell'ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale), è autore di diversi libri che si caratterizzano per il loro approccio interdisciplinare e transdisciplinare. Dopo anni di esperienza in parrocchia, dirige ora l'Ufficio diocesano per la Pastorale Universitaria, la Cultura e l'Evangelizzazione digitale.

Tra gli altri, don Giuseppe è autore di un saggio di "teologia del limite", un interessantissimo libro dal titolo "Pietre che rimbalzano sull'acqua", sul quale gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Don Giuseppe, perché "Pietre che rimbalzano sull'acqua"?

«Nelle settimane di lockdown ho voluto condividere coi miei studenti e sui social di contenuti filosofici, teologici, spirituali, letterari e artistici. Diversi pensatori hanno proposto l'immagine del sasso lanciato in uno stagno che, di rimbalzo in rimbalzo, fa comparire sull'acqua dei cerchi sempre più grandi, che finiscono per abbracciare lo stagno intero. Senza stravolgere il senso di una nota pagina evangelica, ho scagliato pietre (le parole occorre "lanciarle" perché le cose accadano) per creare cerchi di etica (un breve approfondimento per i miei studenti, una meditazione oppure un post sui social) capaci di dilatarsi nella rete il più possibile: non siamo più offline oppure online, ma onlife. Sassi e cerchi concentrici che hanno ispirato il mio lavoro: tredici brevi riflessioni di teologia del limite per vivere meglio il nuovo presente».

Proviamo a dare a i nostri lettori una spiegazione semplice di "teologia del limite" perché possano entrare nel contesto.

«Nella storia dell'arte colpisce constatare il nesso tra la fragilità, i limiti esistenziali degli artisti e la loro capacità di produrre capolavori. Molti pittori sono fragili, ma capaci di creare miracoli artistici. Ad esempio, Vincent van Gogh dipinge la Notte stellata internato probabilmente in un ospedale psichiatrico. I pittori, e in generale tutti gli artisti, hanno una coscienza della fragilità e del limite differente: non è qualcosa di frustrante. Ciò che li "de-limita", lo spazio ristretto della loro vita o tela, non appare ai loro occhi bloccante e frustrante, ma costruttivo e creativo; anzi, ciò che li "de-finisce" li rende unici, li fa esistere. Sin dalle prime pagine della Bibbia il limite è al centro dell'esistenza umana. A proposito dell'albero della conoscenza del bene e del male, così scrive Dietrich Bonhoeffer: "L'albero vietato, che designa il limite dell'uomo, si trova al centro. Il limite dell'uomo è il centro della sua esistenza, non al margine". Per il nascituro, il grembo che lo custodisce diventa paradossalmente un "limite", un ostacolo che impedisce il suo venire alla luce. Allo stesso modo, per la mamma - che ha custodito quel piccolo con amore immenso - il movimento della nascita si presenta come un dolore dilaniante. Primo simbolico gesto materno, l'abbraccio porrà fine alla resistenza e alla fatica di entrambi. L'inizio dell'esistenza umana ci insegna che ogni esperienza del limite ha una via d'uscita: l'abbandono, la fede nell'altro, un abbraccio».

Lei scrive "Nell'epoca della superbia non è semplice definire il concetto di cultura" e poi indica come "cultura" quella categoria in grado di tenere unita e allo stesso tempo rielaborare l'esperienza cristiana. Ce lo spiega?

Una precisa categoria di cattolici cade sempre nella tentazione di combattere una battaglia (già persa in partenza) contro la varietà delle culture, non solo condannando ciò che proviene dall'esterno, ma anche rifiutando le differenze di pensiero all'interno, il volto pluriforme della Chiesa. La teologia, la cultura cristiana dovrebbero, invece, produrre - servendosi sempre di più del linguaggio giornalistico e narrativo - "fogli" di riflessione, non solo opere ciclopiche. Fogli di riflessione arricchiti dalla contaminazione con le altre scienze umane. Nella misura in cui un pensiero diventa comune (l'infosfera è strategica in questo senso), esso può essere fatto proprio da altri e ulteriormente arricchito di valori ed esperienze, evitando così l'autoreferenzialità. Nella Veritatis Gaudium, papa Francesco afferma: "In questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma anche quelli che riguardano il mondo intero. Si tratta di accettare, di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo, acquisendo uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all'assorbimento di uno nell'altro, ma alla risoluzione si di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto" ( n. 4d)».

A livello ecclesiale viviamo un "dramma che ha radici lontane": la separazione tra cultura teologica e vita spirituale, in alcuni casi spinta fino al punto di un "rifiuto" della teologia.

«Nel 1600 la figura dell'illetterato illuminato - pubblicizzata da diversi mistici - ha procurato diversi problemi. Nel tempo questo approccio ha prodotto due errori: da un lato considerare la cultura popolare come una forma di fede grezza, da correggere ed educare, basata su un sapere modesto; dall'altro, una diffidenza quasi totale verso la cultura in senso alto: studiare metterebbe a repentaglio la propria fede e spiritualità. «Dio privilegia gli incolti», riportava la traduzione volgarizzata di Matteo 11,25; invece, l'attuale traduzione della Conferenza Episcopale Italiana recita: «In quel tempo Gesù disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». Gesù per "piccoli" (népios in greco significa bambino, semplice) intende gli umili, gli ultimi, capaci di accogliere il suo messaggio. L'odierna esperienza religiosa, in alcuni casi troppo chiusa nei recinti del sacro, sembra voglia fare a meno dell'apporto della ragione. Motivo? Attualmente domina un mito globale: fare senza cultura. Anche molti "credenti" desiderano una religione tutta emotiva priva di dottrine complicate: intuitiva, semplice, partecipativa ma senza esagerazioni. Di conseguenza, spesso il prete vicino alla gente non deve stimolare domande, ma dispensare devozioni-emozioni usa e getta». Il rischio è serio anche per il sacerdote. Stella Morra e Marco Ronconi affermano: "Quando un parroco spiega che la pochezza della sua predica è dovuta al fatto che la gente ha bisogno di cose facili sta di fatto esprimendo il suo disgusto per la massa di persone che si è trovato davanti, ma non sa che in realtà sta alimentando il suo stesso problema"».

La pandemia ci ha consegnato una Chiesa diversa e ci ha presentato il contro di una pastorale troppo spesso incapace di innovarsi. Cosa ci attende?

La pandemia ha messo in evidenza le contraddizioni del mondo ecclesiale, incongruenze che si sono materializzate tragicamente nella rete: "liturgodemia" digitale con abusi di ogni tipo, "religiosità popolare da remoto" con ritorno indiscriminato a devozioni del passato. Un certo narcisismo clericale ha oltrepassato ogni limite.

Le sfide che ci attendono sono diverse e serie. La teologia, la cultura cristiana, la pastorale dovrebbero fissare la loro attenzione su tutto ciò che sta andando fuori controllo. Fuori controllo non è la fede religiosa, ma la fede nell'altro. Il problema più grave nella comunità ecclesiale e nella società non è la crisi delle verità di fede, dei sacramenti, ma la morte del prossimo: non ci fidiamo più di nessuno. Alla corruzione dell'amore contribuisce anche il criterio spirituale e pastorale di una certa porzione di mondo cattolico: una religiosità emozionale e "devozionista", incentrata sul potere della soddisfazione affettiva, dimentica inevitabilmente il primato della sequela di Cristo, Signore delle relazioni. Dal mio punto di vista, solo una chiesa domestica, fondata sulla Sacra Scrittura (in una società laica non trascuriamo il suo ruolo di libro che educa) e meno idolatrica, ci farà uscire dalla corruzione dell'amore. Perché senza amore, senza fiducia, senza legami la vita è insopportabile. Solo così intercetteremo i cercatori della verità tra i credenti e i non credenti. Come sottolinea TomášHalík, "sono convinto che la Galilea di oggi, dove dobbiamo cercare Dio, che è sopravvissuto alla morte, sia il mondo dei cercatori"».

Abbiamo assistito in un più di una circostanza in questo tempo di pandemia alle più svariate proposte dell'immagine di un "dio" a volte addirittura imbarazzanti. Quale immagine di Dio?

«Un nanosecondo dopo i primi casi di Coronavirus, i soliti noti (non ignoti) hanno colto la palla al balzo per parlare di punizione divina. Non aspettano altro che un terremoto, una sciagura, una malattia mortale per poter esternare le loro sciocchezze. I cristiani, preti compresi, del Dio-ghigliottina sono onnipresenti sui social. Nel libro della Genesi, Dio chiama le cose a essere, a vivere, non a morire. Come poi accade in questo tipo di tragedie, è tornata anche di moda l'idea di una sofferenza intesa come "volontà" divina. A mio parere, invece di interpretare qualunque situazione come volontà di Dio sarebbe meglio chiedersi dove possiamo discernere, nei nostri drammi e sofferenze, la sua amorevole presenza. È stato, poi, anche strumentalizzato Dio in senso miracolistico. E quando il miracolo non arriva? Afferma Léon Burdin: "È il crollo di una fede la cui natura ci rivela che, in circostanze difficili come queste, si mobilitava a esorcizzare la sventura e non per cercare la salvezza di Cristo. La fede non può arrestarsi di fronte alla morte, perché il mistero della morte è intimamente legato al mistero della Resurrezione".

Quale immagine di Dio? Di un Dio che desidera entrare in relazione, tessere legami, diventare amico, provare compassione. Ciò lo spinge a creare. Così facendo diviene, però, "vulnerabile" in eterno; instaura, cioè, un'amicizia con chi - per sua natura - è fragile, inaffidabile, propenso spesso al rifiuto e alla chiusura: il suo darsi come Parola, d'altronde, comporta il rischio del non ascolto, dell'infedeltà. Eppure, malgrado tutto, questo Dio continua a meravigliarsi delle sue creature, a volere la loro compagnia».

Da quanto appreso dalla lettura del testo, lei è un amante della montagna. "La stupefacente e vertiginosa altezza dei massicci - ha scritto - evoca sempre uno slancio verso l'alto". Se dovesse - ora - consegnare una parola ai ragazzi che ci leggono, cosa direbbe loro?

«Nascere in un paese di montagna mi ha permesso di contemplare le vette illuminate dal sole, ma anche di scrutare senza paura le valli tristi coperte di ombre, di considerare ogni goccia di pioggia sulla terra, o sulle pietre, una lacrima di vita: il pianto è lo sguardo che appartiene all'occhio ed è forse per questo che Dio, quando vede nel segreto, conta le lacrime. Il momento prodigioso dell'incontro di Abramo, Mosè ed Elia con Dio - o del rivelarsi dello stesso in Gesù Cristo - ha luogo in un monte, dopo che si è raggiunta la cima. Non esiste dimora più adatta per un appuntamento con Dio: la montagna, infatti, è il luogo dove si adagia il primo raggio di sole e dove indugia l'ultimo, il punto d'incontro tra terra e cielo. Il salire è sia esercizio fisico (ascesa) che spirituale (ascesi). L'ascesi è viaggio di risveglio, rifiuto delle idolatrie che chiudono la vista dell'uomo alle ragioni spirituali, per instaurare tra l'essere umano e il mondo un rapporto di reciproco "inghiottimento".

Sulla vetta, poi, è naturale chinarsi verso il basso seguendo l'esempio dell'Emanuele, del Dio con noi. I racconti biblici descrivono l'incontro di Dio con l'uomo sulla cima di un monte, ma il dialogo che s'instaura tra i due non è mai la conclusione del racconto: all'ascesa segue sempre la discesa. Paradossalmente anche chi è giovane potrebbe salire in montagna vecchio, legato spesso anche agli egoismi, ai rancori del passato, alle delusioni; poi, invece, discendere "piccolo", pronto a vivere un'esistenza più autentica, aperta a un "tu". L'ascesa-ascesi fa raggiungere la vetta; quest'ultima, in modo spontaneo, invita a chinarsi, a guardare il mondo, a discendere, a nutrire d'amore, a consolare chi piange a valle».

Le vorrei consegnare un'ultima parola. Da sola. Senza contesto. Questa parola è misericordia.

In questo nuovo presente ecclesiale, la misericordia richiede fantasia e creatività. Solo così supereremo gli ostacoli, le chiusure sigillate dall'egoismo. Oggi non è più possibile restare confinati nei nostri personaggi o ruoli acquisiti, nell'esercizio del solito menù teologico, nelle discussioni interminabili sui nostri errori di valutazione pastorale. Di fronte ai "nuovi poveri" generati dal Coronavirus, la misericordia domanda una sovrabbondanza di intelligenza, di pensiero, di volontà, di interpretazione dei segni dei tempi. Proprio perché cosciente dei limiti umani, Cristo accoglie sempre l'uomo indietro, non a passo con gli altri: l'emarginato, l'affaticato, il deluso, il malato, il peccatore. Desidera che ogni uomo guardi in avanti. Mi hanno commosso le parole di papa Francesco nella II domenica di Pasqua del 2020: "La misericordia non abbandona chi rimane indietro. Ora, mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, si insinua proprio questo pericolo: dimenticare chi è rimasto indietro".

Sogno, dunque, anche una Chiesa meno legalistica e rigida. Nella parabola dei Due fratelli e del padre buono, quest'ultimo sa che portare indietro il figlio minore al suo errore significherebbe disumanizzarlo. In avanti uno sbaglio si trasforma spesso in qualcosa di buono. Non esiste errore che non si possa recuperare: più drammatico dell'errore è perdere per sempre chi erra».

E noi la sogniamo con Lei una Chiesa così, grazie e buon apostolato.

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