Da Paolo VI a Francesco, l’evoluzione di una Chiesa che si fa dialogo...

25.04.2020

di Paolo Scarabeo

Intervento per la Formazione permanente dei giornalisti del 26 gennaio 2019. Lo riproponiamo qui per i suoi contenuti fortemente attuali. 

...Cioè dià-lógos: cioè parola che si lascia attraversare da una parola altra... L'intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture, di etiche. Cammino di conversione e di comunione. Un dialogo che non ha come fine il consenso, ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. 

Il tema che stiamo per affrontare è un tema ricco di implicanze non solo storiche, ma che danno peso e struttura al tema della comunicazione, nella sua accezione più alta. E questo non perché parleremo di papi... quanto piuttosto per il contenuto e il significato, non solo simbolico, che essi hanno voluto nel tempo dare alla comunicazione, e all'importanza che questa è venuta assumendo nel tempo nella Chiesa.

Montini è stato un grande dono per la Chiesa, e non solo per essa. Dai tempi del fascismo fino all'epoca del centro sinistra, l'Italia ha trovato in lui un punto di riferimento costante. Se tutti associano il Concilio Vaticano II al papa che lo ha convocato, Giovanni XXIII, sulla cui figura pure dovremo, anche se brevemente ma necessariamente soffermarci, nessuno può negare che il papa che è riuscito a fare di quel Concilio il più grande evento ecclesiale, (e direi...e di comunicazione) e probabilmente culturale, dell'epoca moderna è stato Paolo VI. Così parlare di lui oggi vuol dire parlare di un'impresa che in gran parte è ancora da compiere, nella scoperta di cosa voglia dire "Chiesa che si fa dialogo". Dei tanti documenti di Paolo VI è proprio quel documento dove si parla di Chiesa che si fa dialogo, l'Ecclesiam Suam, il più attuale, nel senso di inerente al futuro. Le grandi dichiarazioni conciliari, come la Nostra Aetate, quella che riscopre la fratellanza con gli ebrei (e sono felice di ricordarla oggi, nella vigilia del grande giorno della memoria) dopo anni terribili e che fonda il dialogo con le altre grandi religioni, a cominciare dall'Islam, le grandi encicliche più citate, come la Populorum Progressio, non sono certamente da meno, ma nulla può fare ombra a un documento fondante come Ecclesiam Suam... che è la prima enciclica di Paolo VI, pubblicata il 6 agosto 1964, interamente incentrata sulla Chiesa, e in particolare sulla sua attualità e sulle vie con cui essa dovesse attendere al suo mandato.

Pubblicata appena nel secondo anno del pontificato, essa fu considerata una sorta di "programma" di papa Montini: nella stessa enciclica egli stesso spiegò come fosse suo scopo «manifestarvi alcuni nostri pensieri, che sovrastano agli altri dell'animo Nostro e che ci sembrano utili a guidare praticamente gli inizi del Nostro pontificale ministero».

Fu un documento molto significativo, poiché inaugurò una nuova forma di approccio della Chiesa sia verso il mondo che verso le altre realtà religiose: infatti oltre al desiderio del Papa di far sì che la Chiesa potesse interagire con la modernità, rilevante in questa enciclica fu anche la sua attenzione all'ecumenismo.

Papa Montini definì questa sua prima enciclica "esortatoria", in quanto sarebbero spettati al Concilio Vaticano II (ancora non concluso) e alle successive encicliche gli aspetti più propriamente dogmatici e dottrinali.

Attraverso un prologo e tre capitoli, Paolo VI indicò sinteticamente le vie attraverso cui la Chiesa avrebbe dovuto concepire il suo cammino e il suo mandato nella nuova società:

  • La coscienza di se stessa, della propria origine e della propria missione nel mondo, una consapevolezza che essa avrebbe dovuto ritrovare e approfondire.
  • Il rinnovamento di cui la Chiesa aveva bisogno «per essere - usando le parole del Pontefice - santa, per essere forte, per essere autentica».
  • Il dialogo, cioè il modo con cui essa avrebbe dovuto evangelizzare il mondo contemporaneo e concepire la sua attività ministeriale e la sua missione apostolica.

Nel giorno in cui Paolo VI rinunciò per sempre alla tiara del triregno, simbolo del tempo in cui il papa si riteneva padre dei re, rettore del mondo e Vicario di Cristo, è cominciato quasi inosservato il grande cammino che oggi vede un altro papa invocare una Chiesa che sia ospedale da campo, una Chiesa in uscita, una Chiesa che sia nei crocevia della storia. Quest'ospedale, nella visione di chi ci crede davvero, non diventerà mai una struttura con reparti, primari e strutture, perché in un'ottica conciliare la Chiesa o è ospedale da campo o semplicemente non è Chiesa. È una Chiesa che vive nella storia, accanto a noi e come noi, non al di sopra e al di là della storia. Credo sia questo il tema centrale nella riflessione della e sulla Chiesa oggi. Quello che in particolare non hanno ben compreso i tanti, troppi oppositori di Papa Francesco, che tanto, soprattutto in questi giorni, stanno facendo parlare di sé.La storia cominciata nel giorno dell'abbandono della tiara del triregno non piace ai tanti odierni teorici di "chiese patriottiche", pronti a sfilare con gagliardetti e incensare leader, presidenti o raiss. La storia di cui parliamo infatti ha nella misericordia la sua unica "arma segreta", che sarebbe capace di mettere in crisi terrorismi, fondamentalismi, integralismi, e sovente lo fa anche...È questa grande storia che Paolo VI ha saputo accompagnare, elaborare, presentare al mondo con i grandi messaggi di chiusura del Concilio. I documenti conciliari predisposti dalla Curia Romana vennero riposti dai padri conciliari nel cassetto delle anticaglie e proprio il giorno in cui, dopo aver ascoltato l'intervento del patriarca melchita, Paolo VI depose quella tiara per mai più riprenderla è cominciata l'avventura, il nuovo cammino. Ed è all'inizio di questo nuovo cammino che troviamo già la figura del giornalista.

Il rapporto tra i papi e i giornalisti era iniziato già negli anni trenta, ma sarà il Concilio Vaticano II che permetterà al giornalista di iniziare a narrare non soltanto i contenuti di un governo spirituale, ma anche l'esperienza di una comunità mondiale di credenti che si ritrova per ripensarsi. Nel frattempo la televisione ha cambiato il modo di raccontare le cose e proprio Giovanni XXIII, durante il Concilio, si affida ad alcuni giornalisti sia perché raccontino il Concilio, sia perché svolgano un ruolo di trait d'union tra Vaticano e stampa. E a dargli una mano in questo, chiamò l'allora giovane direttore de La Civiltà Cattolica, il padre Tucci. Sarebbe bello raccontarci quei momenti, ma significherebbe dilungarci troppo. Chi volesse una bella sinstesi la trova nel bel libro del mio caro amico Francesco Occhetta, gesuita, redattore de La Civiltà Cattolica: Le tre soglie del giornalismo.

E un'altra svolta arriva nel 1963, proprio per opera d papa Paolo VI con il Comitato per la stampa. Papa Montini è figlio d'arte: suo padre è stato un importante giornalista; è lui il Papa che fa decollare la Radio Vaticana finanziandola e credendo nella sua missione cattolica, vale a dire universale. Il modo ieratico e profondo - oserei dire mistico - di Paolo VI sa bucare lo schermo. E vorrei ricordare con voi i due eventi mediatici più significativi del suo pontificato: la visita a Bombay in occasione del Congresso Eucaristico internazionale del 2 giugno 1964 - un pellegrinaggio che il papa sceglie di fare nello stile di Gandi, visitando i malati e incontrando i leader religiosi non cristiani - e l'intervento alle nazioni unite, il 4 ottobre del 1964, in occasione del loro XX anniversario.

I rapporti tra Santa Sede e Onu non sono buoni in quel momento, all'indomani della guerra, il Vaticano ha criticato l'ONU, per l'eccessivo potere dei vincitori, per l'esclusione dei paesi vinti e della Spagna, per lo smisurato ruolo dell'Unione Sovietica. Il Segretario generale in carica, Thant, dichiara ai giornalisti "riceveremo il signor Paolo VI". I media comunicano l'aspetto di un uomo fragile ma forte nello spirito "sono qui come esperto di umanità", dirà presentandosi, per poi scandire tre volte il suo grido, battendo il pugno sul leggio "Non più la guerra". Il discorso fu commentato dai giornalisti americani come non convenzionale e molto aderente ai problemi del tempo ed ebbe una forte ripercussione sulla stesura della IV costituzione conciliare la Gaudium et spes... quella che parla del rapporto della chiesa con la cultura e con il mondo.

Il rapporto tra Papi e giornalisti cambia definitivamente con i viaggi papali inaugurati da Paolo VI. Giovanni Paolo II ne fa un preciso stile di governo. I giornalisti iniziano ad incontrare il Papa in volo sul suo aereo, gli parlano direttamente, lo intervistano. Il giornalismo inizia a criticare quello che il papa fa e non fa, giudica i suoi incontri politici, discute sui suoi discorsi, valuta politicamente le conseguenze di un viaggio sulla vita della nazione visitata.

In forma di slogan potremmo dire che se Pio XI e Pio XII sono stati i papi della radio, Giovanni Paolo II è stato quello della televisione, Benedetto XVI e Francesco hanno accompagnato la Chiesa a varcare le soglie della rete.

Il Rapporto tra Chiesa e media vive la sua epoca d'oro con Giovanni Paolo II, e lo si era capito già subito nel giorno dell'elezione, quando il nuovo pontefice anziché limitarsi ad impartire la benedizione, secondo il protocollo, instaura un dialogo diretto con i fedeli in piazza... ricorderete tutti il suo "mi corrigerete". Il suo portavoce pranza e cena con lui, i giornalisti centuplicano il loro lavoro, sono sempre a portata di mano e di viaggio... e c'è un però: se da una parte il successo mediatico è garantito, tra i giornalisti si diffonde il gusto della notizia romanzata, la predilezione per gli intrighi, per gli scandali... rischiando di trascurare le grandi questioni antropologiche che la chiesa va affrontando... e questo allora come oggi.

E questo lo vivranno caro sulla propria pelle Benedetto XVI e, oggi, Papa Francesco. Nonostante tutto ancora e con forza è nella prossimità che il Papato continua a consacrare la missione della comunicazione.

Aprendo il Giubileo della misericordia a San Pietro il papa Francesco, che avrebbe trovato finalmente il modo di dichiarare santo Paolo VI, Jorge Mario Bergoglio, ha detto, cito: "Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un'altra porta che, cinquant'anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo luogo, però, il Concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l'avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario. Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro... dovunque c'è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano" (fine della citazione).

Proprio qui c'è qui il nesso profondo che unisce Francesco, il Concilio e Paolo VI. Bergoglio e Montini sono due papi, due persone dalle caratteristiche profondamente diverse; uno lo ricordiamo introverso, dall'eloquio raffinato, l'altro lo vediamo estremamente estroverso, dall'eloquio diretto... ma la loro convergenza culturale, di fede, di visione evangelica, è evidente... e credo di poter dire... è la stessa!

Papa Francesco nel suo messaggio Per la 48^ Giornata Mondiale per le Comunicazioni Sociali, era il 2014 (che vi invito ad andare a ricercare e rileggere con attenzione), poneva il tema della comunicazione come "a servizio di una autentica cultura dell'incontro" e lo faceva proprio servendosi dell'immagine del samaritano.

Per Francesco si diventa comunicatori attraverso la dimensione della prossimità, esattamente quello che Montini aveva chiesto alla Chiesa con il Concilio. E in quale modo? Proprio attraverso l'esperienza del buon samaritano che comunica in forza di una esperienza vissuta, caratterizzata dalla sequenza dei dieci verbi utilizzati dall'evangelista Luca nel suo cap. 10: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, pagò... fino all'undicesimo verbo: "al mio ritorno salderò".

È questo un decalogo del comunicatore che un credente può offrire all'interno della categoria, della nostra categoria, per rifondare la deontologia: i nuovi 10 comandamenti perché i media siano abitati da "prossimi" e non da "avversari". Altrimenti, ricorda il Papa: "Quando la comunicazione ha il prevalente scopo di indurre al consumo o alla manipolazione delle persone, ci troviamo di fronte ad una aggressione violenta come quella subita dall'uomo percosso dai briganti e abbandonato lungo la strada, come leggiamo nella parabola".

Dunque, possiamo dire che il concetto chiave per la comunicazione moderna non è più la "presenza", ma la "connessione": "se si è presenti ma non connessi si è soli". Comunica, oltre ad informare, il giornalista che riesce a farsi prossimo. Per la Chiesa, il contrario della prossimità è l'aggressione, la comunicazione asservita che manipola e consuma... e credo che davanti agli occhi di tutti voi, mentre dico queste cose, quasi si materializzi la realtà che stiamo vivendo anche nella nostra categoria.

Abbiamo assistito nell'ultimo periodo ad un volgare attacco alla nostra categoria da parte del Governo... personalmente credo che più che un attacco alla categoria, fosse ed è un attacco al pensiero critico e alla cultura... e siamo stati per settimane impegnati a chiederci se eravamo "sciacalli o puttane"... chiediamoci però, amici miei, come raccontiamo il lavoro... come raccontiamo le migrazioni (che è tema rovente di queto tempo)... come raccontiamo la giustizia... come raccontiamo la politica... come raccontiamo la città? È davvero la prossimità il nostro stile? È di qualche giorno fa il titolo di un quotidiano nazionale: "C'è poco da stare allegri. Calano fatturato e Pil, ma aumentano i gay" (Libero, 23\01\19). Forse oggi più che mai è importante raccogliere il testimone di Paolo VI e portarlo con Francesco: l'invito alla prossimità, intesa come stile.Anche in questo è speciale il rapporto tra Montini e Bergoglio: anche nel senso delle avversioni ineleganti, a tratti volgari, che entrambi hanno patito. Montini per certi cattolici era Paolo VI, il papa marxista, proprio come Bergoglio, che addirittura molti, anche nel clero (ignoranti della storia della Chiesa e della grande tradizione dei Padri) hanno ritenuto eretico. Dopo Montini, il papa che seppe chiedere di presentare la Humanae Vitae specificando che non vi era alcuna infallibilità e che il papa avrebbe ascoltato e apprezzato anche le critiche, anche Bergoglio si dimostra capace di accettare il conflitto, a differenza di molti suoi critici. È il viaggio verso le periferie geografiche, esistenziali, non verso le aule di giustizia, che li unisce.Montini è stato il papa del "ma", uno studio inglese dimostra che "ma" è la parola più usata nei suoi testi (forse sullo stile di quel Gesù che amava dire: avete inteso che fu detto, ma io vi dico). Consapevole della complessità, come Bergoglio, Montini ha usato il "ma" anche per aprire la seconda parte di una delle sue frasi più forti e importanti, quella che legittima il tirannicidio: ma mettendo tutti in guardia dal rischio forse incombente di cadere in un'altra tirannide (Populorum Progressio n. 31). Bergoglio, mi piace pensarlo come il Papa del "tu"... e tu è l'espressione più immediata della prossimità.

Un profondo conoscitore di tante alterità, grazie alle quali ha plasmato una propria identità irripetibile, Ryszard Kapuścińsky, aveva sapientemente colto sul terreno di un contatto e una conoscenza quotidiana che, in fondo, "l'altro siamo noi", e in modo molto concreto aveva sperimentato la profonda verità di quanto affermato da Edmond Jabès, e che reputo per noi giornalisti di fondamentale importanza:

"Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero [...] La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi".

Che questa distanza sia ponte o baratro dipende solo da noi.


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