Dentro l’aula del regime: la scuola fascista non educava, obbediva

04.06.2025

di Mario Garofalo

Cosa accade quando la scuola smette di formare pensiero e comincia a modellare consenso?
È una domanda che mi tormenta da tempo. Soprattutto quando sento dire - con leggerezza o nostalgia - che "la scuola, una volta, funzionava". Ma funzionava per chi? E per fare cosa?

Se scaviamo davvero in quel passato - non quello edulcorato, ma quello vero, fatto di quaderni con il fascio stampato in copertina e di gite tra navi da guerra - scopriamo una scuola diversa. Una scuola che non insegnava a essere liberi, ma a essere utili. Utili al regime.

Sì, è vero: c'era disciplina. Le classi erano affollate ma silenziose, i banchi in fila, le mani pulite, le scarpe lucide. Ogni studente sapeva esattamente cosa dire, come stare seduto, quando alzarsi. Ma quella che oggi chiameremmo "efficienza" nascondeva un costo enorme: la cancellazione del pensiero critico.

In quel modello educativo, non c'era spazio per la domanda, per il dubbio, per l'errore come occasione. C'era solo la risposta giusta. E la risposta giusta era sempre quella che faceva piacere al potere.

A scuola si andava in uniforme, come in caserma. Si studiava su testi approvati dallo Stato, che mescolavano grammatica e propaganda, storia e mito, matematica e retorica. Il volto del capo era ovunque. Le parole d'ordine si imparavano prima dell'alfabeto. E ogni mattina, tra una lezione e l'altra, ci si alzava per il saluto obbligatorio.

Questa non era istruzione. Era programmazione sociale. Era preparazione alla fedeltà, non alla libertà.

Mi sono chiesto spesso: com'era crescere in un luogo dove non si imparava a ragionare, ma a marciare? Dove le gite scolastiche portavano negli arsenali invece che nei musei? Dove si ascoltavano i discorsi del leader in silenzio, mentre la voce dell'insegnante si piegava?

Non bastava ubbidire: bisognava anche meritarselo. La scuola era una scala a pioli stretti. Chi non reggeva il passo veniva lasciato indietro. Solo i migliori — o meglio, i più conformi — potevano accedere agli studi superiori, all'università, a un futuro.

Ma attenzione: "merito" lì non significava talento o passione. Significava aderenza al modello, efficienza nella ripetizione, zero deviazioni. La scuola non cercava personalità. Cercava soldatini.

E oggi, quando si parla di "merito" senza parlare di diritti, senza parlare di pari opportunità, davvero siamo così lontani da quella logica?

Poi arrivarono le leggi razziali. Bambini espulsi dalle classi. Maestri cancellati dalle scuole. E tutto accadde senza una parola, senza una protesta. La scuola fascista, addestrata a non deviare, non si oppose. Rimase in silenzio. Anzi, partecipò.

E allora chiedo anche a voi: che cos'è un'istituzione educativa se non sa dire "no" davanti all'ingiustizia? A cosa serve insegnare la storia se non si ha il coraggio di impararla?

Oggi quella scuola non c'è più. Ma le sue ombre sì. Ogni volta che riduciamo la scuola a un luogo di ordine, ogni volta che vediamo l'insegnamento come semplice trasmissione, ogni volta che temiamo il dissenso invece di accoglierlo, quella logica riemerge. Magari in forme più sottili. Più accettabili. Ma non meno pericolose.

La vera sfida educativa non è far stare zitti trenta studenti. È dare voce a trenta coscienze. E questo non si fa con un regolamento, ma con il pensiero.

Sì, sempre. Lo era allora. Lo è oggi. La scuola può servire a rafforzare chi comanda o a liberare chi cresce. Può essere uno specchio del potere o una finestra sul mondo.

Sta a noi scegliere.

Allora vi domando:
Vogliamo una scuola che insegna a ubbidire o una che insegna a dubitare?
Vogliamo studenti in riga o menti accese?
Vogliamo ripetere o vogliamo cambiare?

Perché la vera educazione non si misura in voti o quaderni ordinati.
Si misura in libertà.
E quella non si insegna. Si trasmette con l'esempio.

La scuola fascista ha addestrato.
Oggi dobbiamo educare.
La differenza è tutto.

©Produzione riservata

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