"Discese agli inferi"

07.04.2023

una riflessione teologica di Paolo Scarabeo

«Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù "è risuscitato dai morti" (1Cor 15,20; cfr. At 3,15; Rm 8,11) presuppongono che, preliminarmente alla risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti (cfr. Eb 13,20). È il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri (cfr. 1Pt 3,18-19)». (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 632)

L'antica formulazione di fede del Simbolo degli apostoli presenta tra i suoi articoli la discesa di Gesù agli inferi:

Gesù «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte».

Un espressione sintetica che indica la solidarietà profonda con cui il Cristo volle coinvolgersi, attraverso il sacrificio della croce, con il destino di morte comune a tutti gli uomini, e l'estensione dell'opera della salvezza a tutte le generazioni passate e future.

Gli inferi non sono l'Inferno, che è la condizione definitiva del peccatore, segnata dalla sofferenza, ma indicano quello che l'Antico Testamento palesa come il soggiorno dei morti, in ebraico sheol, in greco hádes (cfr. At 2,31).

Nei Vangeli, Gesù si era riferito alla sua discesa nella morte quando, riferendosi al profeta Giona, aveva detto: "Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'Uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt 12,40). Nella crocifissione Gesù lancia il grido "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34; cfr. Sal 21,2), che fa percepire l'abisso di solitudine e di sofferenza, interiore, psicologica, oltre che fisica, che Gesù ha voluto vivere nella sua passione. Il Salmo 21 è la frase iniziale di una preghiera d'Israele, nella quale si riassumono in maniera toccante l'afflizione e la speranza di questo Popolo, eletto da Dio ed ora apparentemente da lui abbandonato nel modo più desolante. Tale preghiera, sgorgante dalla più profonda afflizione della tenebra in cui Dio s'è avvolto, termina però con un inno alla grandezza di Dio.

Del fatto fisico della morte e sepoltura di Gesù viene data dalla Chiesa apostolica la lettura teologica che ne precisa il senso per la salvezza dell'umanità. Anzitutto Cristo ha voluto condividere l'esperienza degli inferi propria di tutta l'umanità. Per Paolo Cristo con la sua morte è sceso nell'abisso (cfr. Rm 10,7), da cui è risalito nella risurrezione. Si riferisce alla stessa discesa anche in un altro passo (Ef 4,8-10), dove afferma che Cristo era "disceso nelle parti inferiori della terra".

Nel discorso di Pentecoste, Pietro parla della risurrezione di Cristo citando il Salmo 16[15]: afferma così che Davide, profeticamente ispirato, "previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione" (At 2,31).

Il linguaggio duale di carne-spirito viene usato in 1Pt 3,18 per riferirsi al mistero della morte-risurrezione di Cristo: "Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito". La carne parla di una condizione di fragilità e di impotenza che Gesù ha voluto assumere e vivere. E subito aggiunge: "In spirito (Cristo) andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione" (1Pt 3,19). La Chiesa legge in queste parole una rappresentazione metaforica dell'estensione della presenza del Cristo crocifisso anche a coloro che erano morti prima di lui. La discesa agli inferi è quindi compimento dell'opera della salvezza. L'opera redentrice raggiunge tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, anche coloro che nella "pienezza dei tempi" (Ef 1,10; Eb 9,26; cfr. Gal 4,4) giacevano già nel "regno dei morti".

L'Apostolo Pietro ricorda che da Cristo verranno giudicati "i vivi e i morti" (1Pt 4,5). Infatti, «è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo subito, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello spirito» (1Pt 4,6).

La parola del Vangelo e la forza della croce di Gesù raggiungono tutti, anche quelli appartenenti alle generazioni passate più lontane. L'Apocalisse testimonia che Cristo, scendendo nel mistero della morte, è diventato Signore anche della morte: «Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,18).

Nella tradizione patristica Cristo discende agli inferi per liberare i giusti che attendevano il Salvatore. Secondo il Vangelo apocrifo di Nicodemo, Gesù infrange le porte sbarrate degli inferi per liberare i Patriarchi, i profeti e gli altri personaggi dell'Antico Testamento, come Adamo, suo figlio Set, Mosè, Davide, Isaia.

In questo e altri scritti simili molti altri personaggi dei Vangeli sono oggetto della liberazione operata da Cristo nella sua discesa agli inferi.

Ritroviamo poi l'affermazione della discesa agli inferi in una professione di fede del IV secolo, il cosiddetto Simbolo di Aquileia, ed è espressa nuovamente dal Concilio Lateranense IV e dal secondo Concilio di Lione, nonché dalla professione di fede di Michele Paleologo (1274). La Leggenda Aurea redatta dal domenicano Jacopo da Varagine alla fine del XIII secolo è il testo di riferimento per la fortuna di questa immagine.

La tradizione Orientale rappresenta la Pasqua di risurrezione soprattutto attraverso il tema della discesa di Cristo agli inferi: è il cuore del messaggio pasquale in molte liturgie, come testimoniato da tutta una serie di testi e ripreso dagli elementi delle icone.

Cristo "discese agli inferi per estrarre vittorioso l'uomo decaduto per l'antica colpa e fatto schiavo del regno del peccato, e per spezzare con mano potente le serrature delle porte e aprire a quanti l'avrebbero seguito la gloria della risurrezione" (Liturgia Mozarabica).

"Colui che disse ad Adamo 'Dove sei?' si è volontariamente rivestito di un corpo di carne; è salito sulla croce perché l'ha voluto, per cercare colui che era perduto; è sceso agli inferi dietro a lui e l'ha trovato. L'ha chiamato e gli ha detto: 'Vieni dunque, o mia immagine e mia somiglianza. Ecco io sono sceso dietro a te per ricondurti alla tua eredità'" (Efrem il Siro, Inno per la II domenica di Pasqua).

"Sei disceso sulla terra per salvare Adamo e, non avendolo trovato sulla terra, o Signore, sei andato a cercarlo fino agli inferi" (Liturgia bizantina, mattutino del Sabato Santo).

"Oggi il sole di giustizia si è manifestato non dal cielo, ma dagli inferi. Infatti un qualcosa di inatteso è accaduto: gli inferi sono diventati immagine dell'oriente e il sole di giustizia si è levato di là. Egli, infatti, discese a illuminare quelli che erano in basso, per mezzo della sua morte; e salì a illuminare quelli che erano in alto, per mezzo della sua risurrezione" (Omelia siriaca anonima, V-VI secolo).

Nelle icone dell'anastasis Gesù irrompe circondato dalla luce, e schiaccia con i piedi le porte degli inferi divelte. Sotto di esse sono raffigurate chiavi e chiavistelli, ad indicare la sconfitta delle tenebre operata da Cristo con la sua risurrezione. Secondo la tradizione iconografica già fissata a Bisanzio, gli inferi nelle icone sono rappresentati con una simbolica spaccatura nella terra, dietro di cui si aprono misteriosi e invisibili abissi.

È dato poco risalto allo spazio degli inferi. Esso, per così dire, non merita più attenzione, è già stato calpestato e distrutto, viene dunque rappresentato con negligenza. La figura di Cristo è impetuosa e dinamica, simboleggia la distruttiva catastrofe che è piombata negli inferi. Questi sono raffigurati come un abisso che si trova nelle fondamenta della terra, le cui porte sono chiuse fortemente e non permettono a nessuno di uscire di là.

La figura di Cristo è racchiusa in una mandorla circolare. Questa, che inizialmente simbolizza soltanto la "gloria", lo splendore della "grazia che porta la luce", ha cominciato a significare con il tempo uno spazio specifico, quello "non di questo mondo", riempito di "invisibili" angeli senza corpo. Molto convenzionalmente, ma con inaspettata credibilità, questi invisibili angeli vengono con il tempo rappresentati sulle icone.

Così, gli artisti raffigurano contemporaneamente tre spazi: quello "non di questo mondo", lo spazio degli inferi, e un altro spazio, in cui si trovano i giusti, portati via da Cristo.

Sulle icone provenienti dalle scuole di Mosca e di Novgorod, Cristo risorto porta una tunica azzurra e un manto blu.

La discesa agli inferi ha un significato anche morale: la sconfitta del male ed il trionfo del bene. Per questo le forze celesti, che riempiono la gloria (la mandorla) che attornia Cristo, spesso hanno anche un nome: "Vita", "Gioia", "Ragione", "Sapienza", "Verità", "Amore", "Umiltà", "Felicità", "Purezza". A loro si oppongono le forze del male, personificate dai demoni: "Morte", "Odio", "Irragionevolezza", "Inimicizia". I demoni sono trafitti da fulmini, emanati dal Signore, mentre il padrone e principe di queste forze, satana, viene legato dagli angeli.

Il corpo umano di Gesù è accolto nella morte. Cristo è passato attraverso un'autentica esperienza della morte, e la deposizione nel sepolcro ne è la conferma: la sua fu una reale uscita dalla vita. Nella morte l'anima di Cristo, separata dal corpo, era già glorificata in Dio, ma il corpo giaceva nel sepolcro, nello stato di cadavere. Nel tempo tra la sua morte e la sua risurrezione Gesù sperimentò lo "stato di morte", cioè la separazione dell'anima dal corpo, così come lo sperimentano tutti gli uomini.

La Chiesa fa memoria liturgica della discesa di Gesù agli inferi il Sabato Santo, giorno in cui ricorda il riposo di Gesù nella tomba e attende nella preghiera e nel digiuno la sua Risurrezione. Il Sabato Santo è giorno aliturgico: in esso la Chiesa non effettua alcuna celebrazione liturgica, per associarsi al riposo e al silenzio del suo Signore sceso nell'abisso della morte.

Ratzinger fa una lettura esistenziale della discesa di Cristo agli inferi, collegandola alla presa in giro del profeta Elia ai profeti di Baal: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà» (1Re 18,27). Il teologo tedesco fa notare come della presa in giro di Elia verso i falsi profeti sono vittima oggi i credenti, nessun grido dei quali sembra capace di risvegliare Dio. Oggi "il razionalista pare autorizzato a dirci: pregate più forte, che forse allora il vostro Dio si sveglierà". L'espressione "Discese agli inferi" sembra proprio designare la situazione odierna, lo sprofondamento di Dio nel mutismo, nel cupo silenzio dell'assente. "Solo allorché l'abbiamo sperimentato come solenne Silenzio, possiamo sperare di percepire anche la sua Parola, che sgorga avvolta nel tacito mistero.

Il Silenzio di Cristo nella morte, vissuta come vittima dell'ingiustizia e del peccato, esprime tutta la profondità dell'abisso in cui Cristo ha voluto scendere, e in questo si fa compagno di viaggio anche dell'uomo d'oggi, che sperimenta il silenzio di Dio nei suoi confronti.

Ma c'è un di più. L'evento complessivo della vicenda Cristo è "discesa". Cristo ha voluto sottostare alla legge dei morti, e cioè: scendere nelle dimensioni più abissali di smarrimento e di perdizione; entrare e permanere per il tempo di tre giorni nel regno della morte dove scende l'uomo; scendere e permanere nello spazio dominato da satana, il "serpente antico, cioè il diavolo, satana" (Ap 20,2), il grande arrogante che si allea con la grande prostituta dell'Apocalisse per sedurre gli uomini.

Cristo si porta volontariamente nell'abisso della perdizione provata dall'uomo, scendendo nello spazio della ferita originaria che attraversa la storia dell'umanità e la segna; vi scende per riattivare l'origine prima, per fa ri-sorgere l'uomo originario e la sua libertà. In ciò egli vive e rispetta fino in fondo il misterioso dramma della libertà giocato tra uomo e Dio, si fa uomo tra gli uomini, si fa rischio di Dio che accetta lo scontro con la potenza del male, di Dio che sceglie di sottostare alla morte per poterla vincere, per potersi dimostrare Onnipotente, Signore della vita.

Una simile opera può compierla solo un Dio. E Cristo, il Figlio di Dio e Dio anch'Egli, scende tra gli uomini decidendosi ad una tale katàbasis al fine di liberare l'uomo e mostrare il vero volto di Dio.

Tutto questo, Cristo lo opera nella condizione di chi ha voluto morire e discendere, nella condizione di chi è andato incontro alla morte, dal momento che spetta a lui deporre la vita e ri-prendersela di nuovo (Gv 10,17-18). È lui che chiama la morte e accetta la sfida, altrimenti essa nulla mai avrebbe potuto contro di Lui.

Questa dimensione di lotta ha sempre caratterizzato la comprensione cristiana della discesa agli inferi del Cristo, senza di essa infatti, tale evento sarebbe stato insignificante, senza senso. Una notevole tradizione patristica ha letto quell'evento alla luce di Mt 12, Mc 3, Lc 11, del confronto e della lotta tra un uomo forte e un uomo più forte di lui: il forte lega il più forte! Nella discesa agli inferi il Cristo ha voluto essere legato dalle catene della morte per poterle infrangere, e dimostrare la sua signoria sulla morte.

E ancora. Anche l'evento della sua Incarnazione richiama la discesa agli inferi.

L'Apostolo Paolo lo canta senza mezzi termini nel suo Inno Cristologico di Fil 2,6-11:

"Cristo Gesù, pur essendo di natura divina,

ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini.
Apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente
fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre".

Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;

Deciso ad uscire dalla propria condizione divina per coinvolgersi, in prima persona, nella storia degli uomini, il Figlio di Dio è uscito da sé (èk-stasis) per sprofondare (kènōsis) nel destino degli uomini e nel regno del male, immergendosi totalmente nel vissuto dell'uomo e fare sua la storia di ogni carne.

In questo modo il Cristo rischia tutto, non si vincola alla sua realtà divina, ma proprio perché questa gli appartiene di suo, può farne dono. Perde lui per primo la propria vita, lasciandosi raggiungere dalla potenza del male per sconfiggerla definitivamente.

L'iconografia orientale bizantina e russa della Natività pone in forte rilievo il collegamento tra Incarnazione e Discesa agli inferi.

Esempio lampante è la Natività di Rublëv, dell'inizio del XV sec. In essa il Cristo depositato sulla mangiatoia sullo sfondo di una grotta, la cui forma è quella di un oscuro antro che prelude, richiamandolo, a quello dell'Ade. La sua voragine, nera, fa da sfondo all'evento del Verbo di Dio che pose la sua dimora\carne tra gli uomini, già manifestando così il conflitto tra luce e tenebra:

«In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
(...)
Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
(...)
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 4-5.9-10.14).

Il Natale dunque congiunge da subito il Cielo con le profondità dell'Abisso. Dio stesso è il segno che congiunge il Cielo e gli Inferi: è Lui il Verbo incarnato che dall'alto dei cieli raggiunge l'infero più profondo della terra.


Riferimenti Bibliografici:

G. Mazzanti, Discesa agli inferi e dramma nuziale, San Paolo 2011
J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, p. 238-245
S. Chialà, Discese agli inferi, Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano, Biella, 2000
S. Zuffi, Episodi e personaggi del Vangelo, II vol., Electa, Roma, 2004

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