Dopo le grandi vette, serve l'amore del cristiano

26.02.2022

VIII Domenica del Tempo Ordinario, Anno C

Letture: Sir 27,5-8; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45

di don Mattia Martino

Il Vangelo dell'ottava Domenica del Tempo Ordinario ci presenta nuovamente "il discorso della pianura" di Gesù. Dopo aver presentato a quali grandi vette deve arrivare l'amore del cristiano, Gesù con tre paragoni indica le regole per il discernimento delle relazioni con se stesso e con gli altri.

Il primo paragone: se un cieco guida un altro cieco, entrambi vanno a finire in un fosso. O almeno, non sanno dove andare. I discepoli non possono permettersi il rischio di essere guide cieche. Gesù aveva già parlato del tema della cecità nel vangelo di Matteo (cf. Mt 15, 14) in riferimento agli scribi e ai farisei, ovvero a coloro che sono ciechi dinanzi al Figlio di Dio, al mistero d'amore che Egli viene a rivelare. Tutti coloro che si ritengono maestri superiori al Maestro sono inevitabilmente toccati da queste parole. Oggi viviamo in un mondo in cui, a volte, vogliamo essere noi i maestri di noi stessi: ogni scelta e ogni ragionamento devono entrare per forza nei miei parametri. Altre volte invece ci convinciamo ad andare dietro ad alcune guide. Prima poteva essere il buon senso o l'educazione che abbiamo ricevuto quando eravamo piccoli. Oggi invece è l'opinione del calciatore, del tiktoker, dell'influencer, del politico, e chi più ne ha più ne metta. Seguiamo una marea di guide. Non che sia sbagliato, ci mancherebbe. Basta però scegliere una guida che sia capace di condurre su buoni sentieri, e non in un fosso. Gesù ha la pretesa di essere l'unico Maestro, l'unico che ci ammaestra nelle scelte da fare, l'unico che può condurci alla pienezza che tanto desideriamo. E anche se nella vita mi troverò ad essere maestro, dovrò solo essere trasparenza dell'unico Maestro, di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto.

Sono cieco: la vista non posso darmela da solo. Ho bisogno che il Signore mi illumini. Solo così potrò sperare di divenire un buon discepolo, che ha valore anzitutto per la sua fedeltà al Maestro e non per le sue abilità.

Il secondo paragone tratta della pagliuzza e della trave. Mettere in pratica queste parole vuol dire esercitarsi nella correzione. I nostri occhi si posano sempre sugli altri, su ciò che in loro non va. Giudico e condanno le altre persone autoassolvendomi da comportamenti ben peggiori di quelli che io denuncio. Occorre l'accortezza di cominciare con la critica a me stesso. Da lì troverò la giusta misura per regolare le mie parole verso gli altri. Devo fare verità su di me, guardarmi dentro. Devo cominciare a vedermi seriamente nella dimensione del limite, e alla luce di questo, considerare gli altri. Altrimenti sarò sempre più puntiglioso verso di loro e più indulgente verso di me.

Il bello di queste parole di Gesù sta nel fatto che esse non sono riferite agli scribi e ai farisei, che pure avevano l'aria da maestrini, ma si rivolgono alla comunità cristiana, in cui chi ha ruoli di responsabilità, molto spesso, non mette il carisma al servizio degli altri, ma se ne serve per ergersi a giudice, pensando di avere il possesso esclusivo della verità.

Terzo e ultimo paragone è quello dell'albero buono e dell'albero cattivo.

Non è solo un invito a giudicare le persone da ciò che fanno. Certamente se vorrò essere credibile devo assumere atteggiamenti coerenti con la fede che professo. Ma bisogna andare ancora più a fondo: la questione è mutare il cuore, che è la sorgente di ogni nostra azione, il punto centrale della persona.

Ma il cuore non ha solo una connessione con le cose che facciamo. C'è anche un nesso profondo con la parola. E l'ultima frase del testo evangelico e alcuni passaggi della prima lettura ce lo mostrano chiaramente (cf. Lc 6, 45 e Sir 27, 4-7). La parola rivela il cuore dell'uomo, ci fa vedere cosa abita in lui. Questa domenica ci permette già di iniziare a prepararci alla Quaresima, prendendo l'impegno di confrontarci seriamente sul nostro modo di parlare e di curare la nostra limpidezza interiore. Il Signore si aspetta fichi e uva (cf. Lc 6, 44), frutti della Terra promessa. Anche noi inizieremo un nuovo periodo dell'anno liturgico che è simile a un cammino verso la Terra promessa, verso una meta: la somiglianza col Maestro.

Se metterò mano al cuore, sarò in grado di proferire parole che edificano e compiere gesti che danno speranza. E potrò giudicare me stesso e gli altri dai frutti che produrrà l'albero della mia vita, assumendo lo sguardo stesso di Dio, che non parte dall'apparenza o dal pregiudizio.

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