Dopo Magnastoria 2025, una città che si siede, si guarda, si ritrova – grazie al cuore silenzioso di chi l’ha resa possibile

11.09.2025

di Mario Garofalo

C'è un momento in cui tutto si ferma. Le tovaglie, ancora calde di sorrisi, si piegano lentamente; i bicchieri vuoti riflettono l'ultima luce dei lampioni; le strade del centro, appena percorse da centinaia di passi, tornano al loro silenzio millenario. In quell'istante sospeso, mentre la notte riprende possesso delle pietre e dei balconi, si coglie la vera grandezza di Magnastoria 2025: nei numeri, negli applausi, in quel respiro profondo che attraversa Isernia, come se la città avesse appena vissuto qualcosa di sacro.

Dietro questo incanto, c'è un gruppo di donne e uomini che lavorano senza nome, senza palco, senza bisogno di essere ringraziati. Sono gli organizzatori, lo staff di Magnastoria, che anche quest'anno hanno scelto il silenzio come forma di rispetto verso ciò che stanno custodendo. Isernia li conosce, li vede all'opera, li incrocia stanchi all'alba con uno scatolone tra le braccia o una corda da fissare, eppure preferiscono restare ai margini del racconto, come le radici sotto terra che permettono all'albero di fiorire. A guidarli, con il carisma di chi sa vedere oltre, Emilio Izzo: mente visionaria, coordinatore appassionato, voce che unisce idee e mani, cuore pulsante che riesce ogni anno a dare forma a un sogno collettivo.

Insieme hanno costruito una macchina umana capace di muovere emozioni, organizzare poesia e rendere possibile ciò che sembrava impensabile. Hanno risposto, sempre in forma anonima, alle domande più intime su cosa significa davvero creare, con amore, qualcosa che ogni anno unisce e rinnova una comunità intera. Il risultato è questo racconto corale, che merita di essere letto con il cuore spalancato.

Quando avete capito che Magnastoria era qualcosa di più di un evento?
Abbiamo percepito la trasformazione nel momento esatto in cui due persone, sedute una accanto all'altra, si sono servite dallo stesso piatto pur senza conoscersi. Dopo pochi minuti parlavano, sorridevano, condividevano storie e aneddoti come se il tempo non li avesse mai separati. In quel frammento, Magnastoria ha smesso di essere una manifestazione e si è trasformata in un gesto collettivo d'amore. Si è fatta rito, memoria condivisa, sentimento vivo. Il cibo ha unito, la musica ha accompagnato, la luce ha dipinto volti che sembravano aspettarsi da anni. Abbiamo compreso che quel tavolo non ospitava solo piatti, ma anime.

Qual è stata la sfida più grande dell'edizione 2025?
La vera prova è cominciata ben prima del giorno stabilito. Quando si sono aperti i cartoni delle tovaglie, quando abbiamo montato la prima struttura, bensì nell'attesa estenuante di autorizzazioni, nell'altalena emotiva tra il "si parte" e il "si aspetta ancora". La città ci guardava, e intanto ogni minuto diventava prezioso. Il centro storico, con la sua anima fragile e bellissima, chiedeva rispetto e cura estrema. Ogni scelta è stata ponderata con attenzione chirurgica: il posizionamento dei tavoli, l'accessibilità, la sicurezza, la capacità di far convivere estetica, logistica e cuore. Quando tutto ha finalmente cominciato a prendere forma, le tensioni si sono sciolte come neve al sole, lasciando spazio solo a una felicità che si poteva toccare con mano.

Ci raccontate un momento in cui sembrava che tutto potesse crollare… e invece è diventato un successo?
Un imprevisto non manca mai. Anche questa edizione ne ha regalato uno di quelli che sembrano voler travolgere tutto. Un'ordinanza arrivata a ridosso dell'inizio, il cielo che si copriva all'improvviso, l'elettricità che saltava in un punto cruciale. Ogni passo accelerava, ogni sguardo cercava soluzioni rapide, ogni cuore batteva forte. Abbiamo lavorato come un corpo unico, spostando, rivedendo, adattando. E poi il tempo si è aperto, la gente ha cominciato ad arrivare, i primi bicchieri si sono riempiti, i primi brindisi hanno scacciato ogni dubbio. Il disastro annunciato si è trasformato in una delle notti più emozionanti della storia di Magnastoria.

Qual è l'immagine che ogni anno riesce ancora a emozionarvi?
C'è un istante, preciso, che ci coglie impreparati nonostante l'esperienza. Quando il corso si trasforma in una lunga tavolata viva e palpitante, quando i fili di luci si accendono uno dopo l'altro, quando le tovaglie colorate si tendono come nastri da festa sopra il selciato e gli occhi della gente brillano ancora prima che la cena cominci. In quel momento ogni sforzo trova la sua ragione. Si resta fermi, anche solo per un secondo, e si guarda quel fiume di umanità scorrere sereno, come se la città intera si fosse appena riappropriata della propria anima.

C'è un dettaglio minuscolo che per voi ha un significato enorme?
La disposizione dei tavoli. Ogni angolazione, ogni distanza, ogni linea. Tutto contribuisce a rendere fluido il movimento, naturale la conversazione, accogliente l'intera esperienza. Il pubblico raramente se ne accorge, eppure da lì nasce la fluidità dell'intera serata. Una disposizione armonica permette alle persone di sentirsi accolte ancor prima di sedersi. In quella geometria invisibile si costruisce la prima scintilla di bellezza.

Le divergenze ci sono? Come le superate?
Le idee forti richiamano confronto. La passione genera opinioni diverse, proposte contrastanti, visioni che si incrociano come strade in salita. Ogni discussione, anche accesa, è una prova di amore per il progetto. Il segreto sta nel ricordare sempre che nessuno è sopra Magnastoria, perché appartiene a tutti. Ogni volta, dopo ogni confronto, torna la voglia di costruire. E si riparte, con più convinzione.

Qual è la frase del pubblico che portate nel cuore?
Una donna anziana, seduta al centro della tavolata, ci ha detto con voce tremante: "Mi avete fatto tornare ragazza. Era da allora che non mangiavo in mezzo a tanta gente felice." Un giovane emigrato, tornato apposta dall'estero, ci ha abbracciati dicendo: "Questa è casa, anche se casa l'ho lasciata da tempo." In queste parole, si racchiude tutto il nostro lavoro.

Come si costruisce un racconto che si può anche assaporare?
Con l'intreccio dei sensi. Ogni elemento è pensato per essere vissuto prima che compreso: il rumore delle stoviglie, le voci che si fondono come un coro spontaneo, i profumi che salgono dalle cucine come onde di ricordi, le luci che accarezzano i volti, le mani che si incontrano per passare un bicchiere o versare un po' d'acqua. È una sinfonia della presenza, un invito a esserci, totalmente.

Avete vissuto momenti surreali?
Un gruppo di turisti stranieri, giunto per caso nel cuore della manifestazione, si è seduto inizialmente con lo sguardo curioso e distaccato. Alla fine della serata cantavano e ballavano con tutti, chiedevano di poter restare ancora un po', volevano sapere quando sarebbe stata la prossima edizione. Il loro sorriso raccontava molto più di mille fotografie.

Cosa accade quando tutto finisce e restate soli?
Una calma densa avvolge le strade. I piedi fanno male, le mani sono stanche, gli occhi bruciano, eppure dentro si accende una luce lieve. Resta la consapevolezza di aver creato qualcosa che non si cancellerà. Quel silenzio dopo il pieno è simile a una preghiera, un grazie sussurrato a chi c'era, a chi ha creduto, a chi ha amato. Ed è in quel momento che, piano piano, già si comincia a sognare l'anno successivo.

Come descrivereste Magnastoria senza usare le parole "cibo" o "storia"?
Un abbraccio lungo una città intera, un invito a sedersi accanto senza domande, un viaggio senza biglietto che si fa con lo sguardo, con il sorriso, con il silenzio condiviso tra due sconosciuti che, per una sera, diventano famiglia.

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