Gaza, lo specchio spezzato della nostra umanità
No alla logica della punizione collettiva. No all'uso della sicurezza come scudo per la distruzione. No alla privatizzazione della vita. E soprattutto no al nostro silenzio.
di Mario Garofalo
C'è un silenzio che fa più rumore delle esplosioni. È il silenzio di noi europei, di noi occidentali, che assistiamo - sempre più distratti, sempre più anestetizzati - alla progressiva cancellazione di Gaza, non solo dalla geografia, ma dall'immaginario umano.
Nella notte, a Tel Aviv, il governo israeliano ha deliberato ciò che era già evidente sul terreno: la completa occupazione militare della Striscia. È una scelta dichiarata con sobrietà burocratica, ma carica di implicazioni devastanti. Non si tratta più di operazioni contro un gruppo armato, ma della ridefinizione integrale di uno spazio e della sua gente. Gaza, oggi, è trattata come una ferita da chiudere con la forza, e non come una comunità da riconoscere.
Ma oltre la geopolitica, oltre i comunicati e le risoluzioni, ci sono le persone. Non le vediamo, ma ci sono. Uomini e donne che resistono sotto i cieli tagliati dai droni. Madri che scavano a mani nude sotto le macerie per salvare i figli. Medici che operano senza anestesia. Bambini che non piangono più, perché hanno già imparato che il pianto non serve. E ogni volta che restiamo in silenzio di fronte a tutto questo, una parte della nostra umanità si spegne.
Mi colpisce come l'orrore, se reiterato, smetta di far notizia. Ci abituiamo. Le cifre si sovrappongono. Mille morti diventano numeri, come le statistiche di un'emergenza permanente. Ma Gaza non è un'anomalia da amministrare. È il luogo dove oggi si misura la tenuta etica del nostro tempo.
L'annuncio che, una volta conclusa l'operazione militare, la sopravvivenza della popolazione sarà gestita da aziende private, completa un quadro già drammatico. Non più diritti, non più rappresentanza, non più dignità: solo gestione, appalto, contenimento. In questa logica, perfino la fame diventa una voce di bilancio. È l'umanità ridotta a problema logistico.
Come cronista, ho sempre creduto che il nostro compito non sia solo raccontare i fatti, ma cercare, nelle crepe del presente, ciò che resiste dell'umano. In questo caso, l'umano si sta spegnendo nel disinteresse generale. L'indifferenza, diceva Primo Levi, è più colpevole della violenza stessa. E in questi giorni, l'Europa si sta specializzando in indifferenza: nessun gesto politico concreto, nessuna pressione vera, nessuna presa di distanza. Solo equilibrismi verbali, mentre sul campo si consuma una tragedia che non ha più alibi.
Non si tratta di negare le ragioni d'Israele, né di minimizzare le ferite dell'attacco del 7 ottobre. Ma una democrazia che si vuole tale non può vendicare l'orrore con l'orrore. La risposta non può essere la sospensione del diritto, la neutralizzazione di un'intera società, la trasformazione di un popolo in massa amorfa da sorvegliare e amministrare.
Le parole pesano, oggi. E chi ha voce pubblica ha il dovere di usarla con onestà. Gaza non è un dettaglio del conflitto mediorientale. È il cuore pulsante di una crisi che ci riguarda. Perché ogni bambino che muore sotto le bombe, ogni ambulanza che non passa, ogni famiglia che muore di sete o di fame, interroga anche noi. Interroga la nostra civiltà, la nostra capacità di dire no.
No alla logica della punizione collettiva. No all'uso della sicurezza come scudo per la distruzione. No alla privatizzazione della vita. E soprattutto no al nostro silenzio.
Se non riusciamo a vedere l'umanità in chi oggi sta morendo senza colpa, allora stiamo perdendo anche la nostra.
