Giovani d’oggi: generazioni che non trovano lavoro

07.05.2024

di don Salvatore Rinaldi e Chiara Franchitti

Secondo i dati Istat, in Italia sono più due milioni e duecentomila i giovani tra 15 e 29 anni, che non studiano, non lavorano e non svolgono alcun'altra attività di apprendistato, tirocinio o formazione al lavoro. La cifra degli inattivi è nel nostro paese la più alta dell'Eurozona, pari al 23% della zona lavoro: non si tratta solo di giovani che non hanno finito la scuola dell'obbligo o si sono fermati a questa, ma anche di diplomati e di laureati, e le ragazze sono in numero maggiore dei coetanei maschi. Solo il 34% di questi giovani (circa 750. 000) cerca un lavoro, con percentuali variabili, che vanno dal 40% nel Centro e nel Nord Ovest d'Italia a circa il 30% nel Sud. 

Siamo quindi di fronte alla dura realtà di circa un milione e mezzo di giovani che non fa nulla e non cerca alcun lavoro. Questi dati mostrano un fenomeno di grande ampiezza numerica e di preoccupante gravità, poiché riguarda coloro che rappresentano il futuro della società e si trovano in una fase della vita che dovrebbe essere particolarmente dinamica. La società italiana ancora non sembra avere preso davvero coscienza della serietà della situazione di questi giovani, sia riguardo al presente che al futuro. Il fenomeno è stato considerato soprattutto in relazione alle politiche del lavoro e alle vicende economiche, mentre molto scarsa o banalizzante è stata l'analisi delle problematiche personali che sono coinvolte in questa scelta di inattività. Il dibattito, infatti, si è polarizzato in opposte fazioni su mammoni, bamboccioni, fannulloni e sfigati, senza mai andare oltre queste etichette superficiali e fuorvianti. 

Eppure da tempo sono state messe in luce le specifiche problematiche psicologiche di chi preferisce restare del tutto inattivo piuttosto che mettersi in gioco nel mondo del lavoro e della formazione, con il risultato di rinunciare sia alla ricerca di lavoro, sia a una formazione più specifica. Questi giovani inattivi sono ben lontani dall'immagine del disoccupato modello a cui la maggior parte di noi implicitamente fa rifermento: motivato, desideroso di realizzarsi attraverso il lavoro, con dei progetti in mente, bisognoso soltanto di colmare alcune lacune nelle competenze e di essere guidato ad orientarsi nel mondo del lavoro. Il giovane disoccupato passivo non ha queste caratteristiche, e di conseguenza risulta resistente ai tentativi tradizionali di coinvolgimento. 

Questi giovani provengono soprattutto da contesti culturali ed educativi nei quali consumismo e permissività hanno esasperato a dismisura i desideri e la ricerca della loro immediata realizzazione, a scapito di una valutazione delle strategie e delle competenze che consentono di raggiungere gli obiettivi desiderati. Non si è così sviluppata la capacità di progettare, sulla base delle proprie aspirazioni, il percorso più utile per raggiungere lo scopo, tenendo conto delle proprie reali abilità; allo stesso tempo non è maturata la capacità di non lasciarsi scoraggiare dai fallimenti, ma di trarre da essi motivo per cambiare e intraprendere nuove strade. Il risultato è una costellazione di atteggiamenti tra loro connessi, che vanno dalla mancanza di progettualità all'attesa fatalistica, dall'assenza di fiducia in sé e nelle proprie capacità a sentimenti di inefficacia, da una valutazione irrealistica sia di sé che della realtà circostante ad ambizioni eccessive e irraggiungibili. 

Tutti questi elementi finiscono per imprigionare il giovane in un circolo vizioso di passività, fallimento e sfiducia che non fa che peggiorare nel tempo. Il discorso di Papa Francesco in volo verso il Brasile su giovani e lavoro ha un valore di fede e pastorale che teologi ed esperti cattolici approfondiranno. Ma ha, in parallelo, una rilevanza per l'economia e lo sviluppo delle nostre società, che tutti possiamo considerare. Dice il Papa: «Corriamo il rischio di avere un'intera generazione che non avrà mai trovato lavoro». Il Papa ha detto con semplicità quel che le più sofisticate analisi del mercato comprovano: la disoccupazione è una trappola, sabbie mobili dove una generazione e milioni di giovani non solo rischia di smarrire il proprio avvenire, ma trova solitudine personale difficile da rimontare. Quel lavoro da cui «Viene la dignità personale di guadagnarsi il pane. La crisi mondiale non fa cose buone con i giovani, visto che, sul mercato, un disoccupato ha sempre maggiore difficoltà ad ottenere un impiego». 

Considerate questo ragionamento alla luce dell'inchiesta che il New York Times ha pubblicato il 19 luglio: i laureati dopo la grande crisi finanziaria, dal 2009 al 2012 in America, paese che crea posti lentamente ma con maggiore lena della media Unione Europea, e assai più velocemente dell'Italia, stentano a lavorare perché le aziende penalizzano i loro due, tre anni di disoccupazione, preferendo ragazzi «freschi» di laurea 2013. Un posto in un bar, il lavoro da commessa per pagare l'affitto, non solo non commuovono gli addetti alle assunzioni ma, paradossalmente, li rendono diffidenti. La disoccupazione viene considerata causa di frustrazione, delusione, smarrimenti personali, meglio dare chance a chi esce dall'Università, ancora carico di entusiasmo. L'idea che questa sia una condizione umana da delegare ai singoli cittadini, dando loro magari consigli giusti sul corso post laurea da scegliere, le lingue da imparare, gli skills di cui dotarsi, e non invece un'emergere globale per le economie sviluppate e i paesi nuovi è pericolosa, e porterà a instabilità, al Cairo e Istanbul, a Detroit e Pechino, A Roma e Parigi. Sintetizza Justin Michigan: «Abbiamo creato un'economia in cui i giovani laureati cercano lavori svolti un tempo da diplomati, i diplomati si accontentano di posti per chi non ha studiato e chi non ha studiato resta precario». 

Papa Francesco denuncia la cultura del degrado sul lavoro, che non si corregge certo con leggine ad hoc, ma ricreando nuovi lavori e non illudendosi, lo ha scritto il direttore Calabresi qualche giorno fa, di «difendere» uno status quo che si scioglie senza soste, senza che imprenditori e sindacalisti possano fermare la realtà: «Siamo abituati a questa cultura dello scarto: con gli anziani si fa tanto spesso, ed è un'ingiustizia perché li lasciamo da parte, come se non avessero niente da darci, e invece essi ci trasmettono la saggezza e i valori della vita, l'amore per la patria, l'amore per la famiglia: tutte cose di cui abbiamo bisogno. ma ora tocca anche ai giovani di essere scartati... Dobbiamo tagliare questa abitudine di scartare le persone» proponendo «una cultura dell'inclusione, dell'incontro e uno sforzo per portare tutti nella società.

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