Giuseppe Bonaviri. Scritti d'arte e di sguardi

22.03.2023

In occasione della giornata mondiale della Poesia si è tenuto, nell'Aula Magna del Liceo Artistico di Frosinone, un convegno sulla figura di Giuseppe Bonaviri: "Voci, Memorie e Suggestioni tra i versi di Bonaviri", il titolo dell'evento che ha visto presente un pubblico numeroso e attento. 

Di seguito l'intervento di Rocco Zani tratto dal libro "Rifrangenze" dedicato allo scrittore siciliano e pubblicato nel 2013.

Tre casettine/dai tetti aguzzi,/un verde praticello,/un esiguo ruscello: Rio Bo,/un vigile cipresso./Microscopico paese, è vero,/paese da nulla, ma però.../c'è sempre di sopra una stella,/una grande magnifica stella,/che a un dipresso.../occhieggia con la punta del cipresso di Rio Bo./Una stella innamorata?/Chi sa/se nemmeno ce l'ha una grande città.

Mi resta questa poesia di Aldo Palazzeschi di quel tempo. Di un tempo bambinesco fatto di scorribande da cortile, di occhi intensi, di alture lunari. E quella Rio Bo era, allora, la periferia di una città tutta da inventare e via Casilina Sud il palazzo al numero sedici. Di lato un pianoro di tufo e la piccola casa di Loreto e dell'inerte Fido. Oltre la prateria (cento metri?) una splendida villa coloniale sacrificata a piani di cemento tanto-al-metro-quadro. I fortini di canne e nodi precari, non già quelli di via Pal, e nascondigli rimossi ogni ora o al calare del sole. E famiglie di trentenni con prole al seguito. I trentenni di un dopoguerra appena smacchiato; rinati alla vita eppure già vecchi, sofferenti, avvezzi al buio più che alla luce. Trentenni provenienti da abissi lontani, irriverenti, fatti di fame e spavento, di silenzi seminati come riparo e di parole limate dal vento di autunni trascorsi.

Poi, pian piano la periferia divenne proroga di una città che in fondo non fu più reinventata. Restano "i sogni senza tempo, le impressioni di un momento" di gucciniana memoria ovvero una scatola di indizi, di legami, di luoghi, soprattutto di persone. E Giuseppe Bonaviri, "lo scrittore di Mineo", è parte significante di quella scatola. Non già come reperto datato o come foto ingiallita da ripercorrere con le dita ma presenza conciliante, soprattutto oggi che la dimenticanza è traino difettoso del nostro andare.

Già a quel tempo Giuseppe Bonaviri abitava nel palazzo al numero sedici di via Casilina Sud. C'erano prati scoscesi, piante selvatiche, l'olmo, e due meravigliosi pini mediterranei. Ma era quell'olmo il centro di un universo minimo da dove riprendere il viaggio dopo ogni affettuoso abbraccio. "In questa casa di via Casilina Sud giù lieve stormisce l'olmo…" . Di certo non era ancora "lo scrittore" agli occhi degli uomini accanto, ma nella città di quegli anni la sua presenza di intellettuale era una scia da percorrere. Soprattutto per chi la "cultura" la viveva come prologo di un nuovo intendere, di una risalita dagli inferi, di un giorno tiepido dopo anni di orrore. E allora le frequentazioni del tempo – nella città sopravvissuta alla guerra, ma ferita – erano quelle consumate con gli artisti giovani o "veterani" che avevano fatto della "Saletta" un luogo di sopravvivenza comune, un incrocio di fiati provenienti da ogni dove. Un luogo di sguardi, di parole mai superflue, di commento e di ascolto. Generazioni di artisti in un confronto fatto esclusivamente di solidarietà e attaccamento, come se la guerra alle spalle li avesse educati al silenzio, ad una disciplina del rispetto che era collante e, al contempo, "inchiostro" del proprio linguaggio espressivo.

Quando molti anni dopo, nel 2007, lo intervistai in occasione dell'uscita di un prezioso volume dedicato esclusivamente al suo rapporto con la nostra terra ("La Ciociaria di Bonaviri"), ebbe a confidarmi questo suo amore sottinteso per l'arte e l'interesse rivolto agli artisti di questa regione, al loro lavoro, al loro paziente fraseggio. "Ho frequentato perlopiù dei pittori e degli scultori quali Fernado Rea, Italo Scelza, Adolfo Loreti, Gaetano Franzese, Federico Gismondi ed Emanuele Floridia. In loro ho trovato sempre una grande sensibilità e desiderio di rinnovarsi e di proiettarsi anche al di fuori della Ciociaria con un aggancio con quella che è la visione nazionale … uno degli artisti più innovatori, più simpatici, legato dapprima al mondo della Seconda Guerra Mondiale che lui visse a Cassino con aspetti tragici, e poi via via innamorato anche degli aspetti paesistici, è stato Vittorio Miele, il quale praticamente viveva nello stesso palazzo in cui vivevo io in via Casilina Sud numero 16…".

Io credo che la scrittura di Bonaviri per l'arte – i suoi saggi – sia stata una scrittura rinnovatrice come a deviare la narrazione oltre i canoni della critica rituale e farne contenuto lieve, intimo, condiviso. E allora i suoi "racconti artistici" sono epistole preziose in cui sono annotate le periferie delle storie, le biografie spicciole dischiuse a noi, lo sguardo dei silenziosi. Non c'è traccia di prospettive ineffabili bensì di soste tenui tese al racconto , alla fantasticheria che nasce lungo la conoscenza.

Uno dei primi "scritti d'arte" risale probabilmente al 1964 ed è, come accadrà poi in futuro, la cronistoria "aperta" – con cadenze perfino romanzesche – di un incontro. 

"Nel maggio scorso, camminavamo con Emanuele Floridia in un sentiero ciottoloso nei pressi di Tecchiena, contrada di Alatri, e avendo io visto dei piccoli cespugli di di fiori d'un azzurro chiarissimo, pensai subito a certe fondamentali tonalità di colore che campiscano da due anni in qua le tele del giovane Floridia. A prima vista il parallelo mentale mi parve curioso, ma a ripensarci bene c'era, in quel casuale paragone, come una concreta rappresentazione dei moti pittorici del nostro artista...Certi balconi aperti su azzurre e rarefatte atmosfere, certi fiori (per lo più girasoli e cardi) che appaiono qua e là fra qualche raro uccello, e quell'aria trasognata, tutta interiore che ne scaturisce, rivelano in una purezza di accostamenti di colori l'animo quasi pascoliano del pittore siciliano. Mi ha colpito di più il quadro Ragazzo co gabbia che mi pare che in sé, in un ritmo di fiaba, condensi i vari elementi lirici del lavoro del Floridia...Io penso (posso anche sbagliarmi) che questi ultimi lavori debbano essere visti nell'assieme come stralci d'una comune antologia di sentimento e colori. E chissà perché la mia memoria corre molto indietro nei secoli, proprio al greco-siracusano Teocrito che nelle sue poesie migliori si trasferiva e si identificava quasi al paesaggio siciliano, del quale si può dire diventava elemento naturale, quale può essere un corso d'acque sul cui greto crescono giuncate ed equiseti…". 

C'è, in questo discorrere d'arte, un elemento assai più accurato ed è quello che apre al lettore certi confini inconsueti all'interno dei quali si consumano quasi sempre storie di un'altra etnia, quella degli artisti, dei loro movimenti, della loro fecondità, delle loro accelerazioni o del dubbio. Bonaviri ne svela l'incredulità, il tempo ordinario, il paesaggio come ritratto incombente nel quale l'artista è se stesso o il doppio; nel quale il lettore è parte in causa, testimone, protagonista. Come a saturare il sommario dell'arte di un'infinità di accadimenti – visivi, psicologici, di memoria – che sono in effetti l'avvertimento per una lettura più estesa, viva, compiuta.

E' del 1972 la testimonianza su Giovanni Savani, figura storica della pittura territoriale. Savani è già anziano, trascorre il suo tempo a studio con sortite serali a la Saletta. E' un uomo del secolo precedente eppure capace di traghettare la sua pittura – e la sua straordinaria umanità – in un tempo di equilibri precari, di spinte, di un vociare sgangherato. Lui che ha addestrato lo sguardo all'ascolto. Lui che gode il rispetto di tutti. Non già per pudore ma per il riguardo che si da ad un artista vero. All'uomo. "In una di queste placide sere d'autunno" - scrive allora Giuseppe Bonaviri - "ci è occorso vedere le tele che il pittore Savani tiene nel suo studiolo. Non nego che ce le siamo gustate lentamente, posando l'occhio ora su un quadro, or su un altro. Sono riprodotti oggetti comuni e ritratti d'una certa aria incantata. Le nature morte, per esempio, seppure ci abbiano richiamato alla mente un narrare figurativo comune, hanno una loro grazia elegiaca, tinta di vaga tristezza, chissà se per scelta dei colori e dei contrasti di ombre, oppure per una promozione d'una intima espressività malinconica tipica dell'uomo Savani…".

Ancora una volta la narrazione di Bonaviri è come "decentrata" rispetto alle teorie abituali della cosiddetta "critica". Lui entra in punta di piedi nello sguardo dell'interlocutore, ne attraversa il vissuto – che è sostanza del tempo – e depone dubbi lungo la lettura. Non sono sentenze linguistiche, non sono affermazioni consacrate, ma frammenti declinati sull'ascolto, sull'ombra o sul bagliore appena colti. E allora finanche i luoghi varcati – nella loro meticolosa rappresentazione – chiariscono il senso di una storia, di un uomo, di un artista. Talvolta ci accompagnano nelle prospettive del colore e della forma.

Certamente più tangibile fu il rapporto con un altro pittore "storico" di questa terra, per una sequenza di eventi quasi fatali. "Per la vicinanza dei nostri appartamenti, uno sotto e l'altro sopra, si può dire che sento finanche il respiro, inteso come pnèuma greco, di Miele pittore. Cioè quel curioso Iddio che bussa alla porta del cuore e detta arsure di mente e senso ambiguo dell'esistere. E poi in comune abbiamo quel sentire agreste, fatto di impressioni di tramonti, case solitarie, fiori imprevisti su monti o valloni. E capisco anche il suo cruccio d'uomo che ha sofferto l'ultima guerra e lo strazio che in oppressioni e morte ci diede. Per fortuna c'è il guizzo dell'immaginario – il fuoco – che per trasfigurazioni di colori, e suoni, e ricordi ci salva". 

Vittorio Miele era un altro "inquilino" di quel palazzo di via Casilina Sud e lo studio era un luogo aperto, pronto a ricevere voci o silenzi. Soprattutto questi ultimi, così cari allo scrittore di Mineo e al pittore di Cassino. Si incrociavano talvolta con sorrisi lievi, addirittura timidi, e ognuno coglieva nell'altro la curiosità e la sorpresa. Per una parola mai detta, per un colore da offrire, per storie che si cucivano su resti di macerie e dolori. "Prima di conoscere un uomo" scrisse Bonaviri nel 1990 "bisogna conoscere la sostanza che poi è, come dire? Il principio universale dell'anima; un'anima non ferma e immobile ma mossa da un azzurro divenire continuo. E passando l'uomo Vittorio Miele la sostanza, in divenire, della sua anima della sua anima ha come proprietà di fondo una schiva modestia. Quasi si trattasse di un cespo campestre che cresce in una sassaia e col colore dei suoi fiori dà luce ai sassi, alle zolle, ai vaganti uccelli cinguettanti. E' questo senso di essenziale, di schivo, pur nella molteplicità di memorie, si riscontra in tutta la pittura di Miele…".

Non meno intenso è l'approccio con Fausto Roma, pittor giovane allora, incontrato in quel girovagare saggio fatto di esplorazioni minute, di passi ,parole e sguardi silenziosi affidati, come epistola ideale, all'amico Daniele Majone. 

"Caro Daniele, in ricordo alle nostre lontane passeggiate campestri in cerca di erbe insolite, o di stenti papiri che qui, in Ciociaria, crescono lungo le secche cunette, ho accettato il tuo invito di venire a Ceccano per vedere lo studio del giovane pittore tuo amico Fausto Roma. Situato quasi al limite del paese, fra orti e paritarie murali, fra ombre e primi soli nascenti. Ho apprezzato con immenso piacere le svampanti e svettanti macchie cromatiche del tuo amico e vi ho colto un travaglio interno d'uno che tende a cogliere aspetti della natura e del pronto "io". Risolti con singolare mano pittorica, come germinanti semi "in fieri" seppure per fili anadiplotici. Con tanta simpatia, credimi".

Ecco, alla fine di questo breve viaggio, e lontano da consuete considerazioni riepilogative, mi vien da dire che molti critici dell'arte contemporanea dovrebbero alzare lo sguardo sull'opera di questo scrittore. Varcarla e impregnarsi le mani di questo inchiostro essenziale, fuori da ogni timbro abituale e scrivere d'arte ponendo al centro l'uomo conoscendone davvero la sostanza, il principio universale dell'anima, e raccontarne le ore, le angosce, il vuoto, il silenzio. Ecco, il silenzio.

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