Il caso Santa Croce di Magliano. Non è un fatto di cronaca. È una diagnosi. E la diagnosi è grave.

14.12.2025

di Paolo Scarabeo

Santa Croce di Magliano non è stata "scossa": è stata "smascherata". Come lo è l'intero Molise, come lo è il Paese intero. L'aggressione a un ragazzo, buttato a terra come un oggetto inutile e preso a calci e pugni mentre altri ridevano e filmavano, non è un incidente di percorso, né una deviazione improvvisa. È il punto d'arrivo di un processo lungo, silenzioso, tollerato.

Noi non vi mostreremo il video. Lo hanno fatto già in troppi. Per tutela della sensibilità di chi ci legge, dei minori coinvolti e, in ultimo ma non per ultimo, per rispetto delle norme deontologiche che chiedono di non mostrare immagini di quella portata, noi non lo mostriamo.

In quanto accaduto non c'è rabbia adolescenziale. C'è metodo. C'è branco. C'è spettacolarizzazione della violenza. E soprattutto c'è assenza di argini. Forse non è neppure il caso di parlare di "bullismo". Qui si tratta di violenza vera e propria, di delinquenza agita!

Non basta più dire "sono ragazzi". Non basta più invocare il contesto, il disagio, l'età. La violenza non nasce per caso, e quando esplode in questa forma - organizzata, condivisa, esibita - significa che qualcuno ha smesso da tempo di educare e qualcun altro ha scelto di voltarsi dall'altra parte.

Il luogo non assolve, anzi accusa. Un piccolo centro, dove ci si conosce tutti, dove i cognomi hanno storia e memoria. Proprio lì accade l'impensabile. Proprio lì si consuma un'aggressione che poteva finire molto peggio. Un timpano lesionato oggi, un cranio spaccato domani. La differenza è solo questione di centimetri, non di intenzioni.

Si è parlato di una discussione nata in classe. Bene: allora la scuola non è estranea. Si è parlato di famiglie. Bene: allora nemmeno loro possono chiamarsi fuori. Si è parlato di social, di video, di risate registrate mentre un coetaneo viene massacrato. E allora smettiamola di fingere stupore: è questo il linguaggio che abbiamo lasciato crescere.

Non si tratta più di episodi legati a periferie degradate o a contesti "a rischio". Questa narrazione è comoda, ma falsa. La violenza giovanile oggi attraversa tutto, senza distinzione. È trasversale, ripetitiva, sempre più precoce. È la certificazione del fallimento dell'intero impianto educativo: scuola, famiglia, comunità, istituzioni.

Indignarsi non serve. Le fiaccolate non servono. I post accorati durano lo spazio di una notte.

Servono scelte.

È necessario investire seriamente nella formazione, non come slogan ma come priorità strutturale. Educazione emotiva, responsabilità, limite. Prevenzione vera, non progetti-tampone. Presenza costante degli adulti, non apparizioni tardive.

Ma non basta.

C'è un punto che va detto con chiarezza, senza ipocrisie: accanto alla prevenzione serve repressione. Forte. Incisiva. Senza tentennamenti. Se un minore è capace di agire con quella ferocia, di colpire la testa di un coetaneo a terra, di partecipare o assistere ridendo, allora è capace anche di assumersi delle responsabilità. La tutela dell'età non può diventare un alibi permanente. La legge deve intervenire, con strumenti adeguati, ma con fermezza. Perché l'assenza di conseguenze è il miglior fertilizzante della violenza.

Il sindaco ha richiamato alla prudenza, ha chiesto di evitare processi mediatici. È giusto. Ma ora la comunità deve fare un passo oltre la cautela. Deve interrogarsi senza sconti. Deve smettere di proteggere l'immagine e iniziare a proteggere i ragazzi, tutti: chi subisce e chi aggredisce, prima che sia troppo tardi.

Perché quando un quindicenne viene pestato mentre altri filmano, non è solo lui a cadere a terra. Cade l'idea stessa di futuro.

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