Il Dio del vino nuovo

15.01.2022

di don Mattia Martino

Con il Battesimo del Signore si è concluso il tempo di Natale. Entriamo nel tempo ordinario, che non celebra un particolare mistero della vita del Signore e della storia della salvezza, ma celebra il mistero di Cristo nella sua globalità. 

Sembra essere un mero riempimento fra i restanti tempi forti dell'anno liturgico, eppure è il tempo per eccellenza della sequela e del discepolato. Ed è proprio l'ordinarietà il terreno in cui ci giochiamo nella fedeltà al Signore, in cui ci verifichiamo nella solidità della nostra fede. Un tempo senza eventi, ma comunque ricco della grazia del Signore che viene annunciata, giorno per giorno e di Domenica in Domenica, dalla Parola di Dio. 

La prima lettura è in concordanza tematica con il Vangelo, in modo che fra esse ci sia un rapporto di promessa-compimento, profezia-realizzazione. E il tema che si sviluppa nella liturgia della seconda Domenica del Tempo Ordinario (la prima è sostituita dal Battesimo del Signore) è quello delle nozze, di cui si parla largamente nella Bibbia. Isaia canta l'amore sponsale fra Dio e il Suo popolo, Israele. Dio è lo Sposo che, per puro amore, si è scelto una Sposa cui vuole rimanere sempre fedele. E l'amore viene descritto come delizia, come la gioia dello sposo per la sposa (cf. Is 62, 5). 

L'immagine sponsale la ritroviamo nel brano evangelico in riferimento a Gesù. Lui è lo Sposo e la Sposa è il nuovo Israele, la comunità credente. A una lettura superficiale, il ben noto episodio delle nozze di Cana, sembra presentare alcune stranezze: in un contesto nuziale lo sposo è menzionato solo en passant, la sposa non è mai nominata; il prodigio che Gesù compie attira l'adesione dei discepoli, ma potremmo domandarci se era davvero necessario compiere un miracolo per mettere a disposizione altro vino. Non bastava risolvere il tutto comprandone altro? E Gesù perché si rivolge in toni così inusuali a sua madre? Non dobbiamo identificare l'episodio come mera cronaca o racconto biografico. 

Si tratta piuttosto di una narrazione simbolica, un segno (termine ricorrente nel Vangelo di Giovanni). Esso è l'archetipo, il prototipo, il modello ideale di tutti gli altri segni che troviamo nel quarto Vangelo (sono in tutto sette). I segni sono degli eventi significativi della vita di Gesù che rivelano la sua azione salvifica. Essi precedono "il segno dei segni", la Risurrezione, e l'evangelista vuole farci soffermare non tanto sul loro aspetto prodigioso, quanto sul loro significato. A Cana si parte da una mancanza: viene a mancare il vino, che biblicamente è sinonimo di festa, di gioia. Può esserci un matrimonio senza vino? Sì, ma certamente verrebbe a mancare un elemento che allieta il tutto. 

La festa di nozze di Cana descrive la nostra parabola: vogliamo gustare le gioie della vita, ci prefiggiamo degli obiettivi da raggiungere. Forse li raggiungiamo anche, ma, strada facendo, viene a mancare il vino. Manca la voglia di vivere, di fare festa. Si va in crisi. Ed è un passaggio obbligato per tutti. Crescono la rabbia, il risentimento, la depressione. Ed è ciò che sta accadendo, complice anche il signor Covid. Manca vino nella nostra vita, manca vino nella società, manca vino alla Chiesa, alla prova del cammino sinodale. Manca vino nel nostro rapporto con Dio, quando questo si riduce a puro formalismo. 

Ad accorgersi di tutto ciò c'è la Madre. La reazione di Gesù sembra sconcertante, almeno nei toni (letteralmente il testo greco dice: "Che cosa c'è fra me e te, o donna?"). Qui è messa in discussione una relazione: Maria dovrà accettare un'evoluzione dei suoi rapporti col figlio. Cosa normalissima in un rapporto madre-figlio, ma da non dare per scontata. E dunque comprendiamo perché Gesù chiami Maria "donna", e non "madre": non dovrà porsi dinanzi a lei in un rapporto familiare, perché, come dice Gesù, non è ancora giunta la sua ora. 

La mancanza di segni di interpunzione nei manoscritti più antichi potrebbe far interpretare questa frase ("Non è ancora giunta la mia ora") in senso interrogativo e in senso negativo. Nel primo caso Gesù chiede: "Non è forse giunta la mia ora?". Alcuni Padri spiegano che a Cana non è più l'ora in cui la madre guida il figlio; non è più l'ora di Maria, ma è l'ora di Gesù; è l'ora in cui Egli prende l'iniziativa e realizza il piano di Dio. Nel secondo caso invece capiamo che è giunta l'ora di una delle manifestazioni di Gesù (dopo l'Epifania e il Battesimo), ma la manifestazione definitiva ci sarà nell'ora della croce, nell'innalzamento del Figlio dell'Uomo. Maria non risponde a Gesù, né gli fa alcuna richiesta. Si rivolge invece ai servi: probabilmente nemmeno lei ha compreso ciò che voglia fare Gesù, ma invita i servi a una perfetta docilità. 

Questo brano ci aiuta a trovare le radici di una vera devozione mariana: Maria dimostra anzitutto di essere serva del Signore, prima che madre. È docile alla Parola, e si sottomette alla volontà di suo figlio purché quella Parola si compia. Maria è la donna che ci aiuta a entrare nell'obbedienza alla Parola. E così facendo ella è doppiamente madre: madre di Cristo secondo la carne e secondo ciò che dice Gesù nei sinottici: "Chiunque fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre"(Mt 12, 50). Ed è anche madre dei discepoli di Gesù, di quanto sono docili a quanto Egli chieda. Maria non ha un messaggio suo, ma rinvia sempre alle parole di Cristo, mediatore nostro. 

Il segno di Cana è legato alle anfore colme di acqua. Sono sei: numero dell'imperfezione (l'uomo creato il sesto giorno). Sono di pietra, come le tavole dell'Alleanza al Sinai su cui era scritta l'antica Legge. E servono per la purificazione rituale. La Legge da sola non basta mai. E anzi, a volte, anche le leggi migliori possono servire solo ad aumentare il desiderio di trasgredirle. Serve Colui che rinnova l'Alleanza, offrendoci vino buono, un rinnovato rapporto con Dio, che esce dallo schema della purificazione, secondo cui non sono mai a posto, ho bisogno sempre di purificarmi perché sono sempre debitore a Dio di qualche cosa, mi garantisco la benevolenza di Dio solo facendo qualche pia pratica. 

Il rapporto con Dio è invece una splendida festa di nozze, in cui lo Sposo Cristo cerca l'umanità per una rinnovata adesione d'amore. Questo nuovo rapporto fra l'uomo e Dio è il vino buono che Gesù vuole offrirci. Agostino, in un suo commento, scrive: "Quando ti converti al Signore, è tolta l'insipienza, e ciò che era acqua, per te diventa vino". Il testo greco, parlando del vino, usa l'aggettivo "bello". Quando ci si rende conto dell'amore di Dio, inevitabilmente la bellezza entra nella nostra fede. Credo perché è bello; perché è ciò che di più bello potessi fare. 

Cosa ci può consegnare questo brano? Può suggerirci una cosa da fare: riempire le anfore. Sì, perché da soli non siamo in grado di passare dall'insipienza dell'acqua al vino nuovo. Possiamo solo fare ciò che dice il Maestro: riempire le anfore fino all'orlo, con l'acqua insignificante che abbiamo. Non credo sia stato entusiasmante per i servi versare 600 litri di acqua, eppure si sono fidati del Maestro. Io mi sarei scoraggiato, avrei lasciato tutto. E quante volte lo faccio. Tante volte vorrei mollare. Ma devo restare, facendo un atto di obbedienza e fiducia. Dio farà dell'acqua un vino buono, che non farà mai mancare alla mia vita il gusto della vera festa. E grazie, Signore, per tutta l'acqua che ho visto trasformarsi in ottimo vino, per me per gli altri.

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