Il figlio deve essere aiutato dai genitori

13.02.2024

di don Salvatore Rinaldi e Chiara Franchitti

Il progetto educativo è piú che altro un luogo, mentale e affettivo, di incontro tra due persone che, in qualità di genitori, desiderano compiere delle scelte e sentirsi responsabili di ciò che fanno, imparando a tollerare la frustrazione di aver agito non proprio come si sarebbe voluto, e a confrontarsi con il timore e l'ansia di sbagliare. In realtà è proprio l'eccessiva paura di commettere errori a danneggiare la crescita dei minori, sulla scia dell'errata convinzione secondo cui i genitori sono responsabili di tutto ciò che accade ai figli. Senza dubbio, molti adulti sono oggi consapevoli dell'importanza della qualità delle relazioni in ambito familiare, e dedicano particolare cura alla dimensione affettiva e comunicativa nel rapporto con i figli. L'attenzione al benessere psicologico dei minori degenera però non poche volte in un'iperprotezione tendente a evitare ogni esperienza negativa, considerata una minaccia per il loro sviluppo psicologico. 

Al contrario, l'idea di poter soddisfare ogni bisogno del bambino e di potergli risparmiare ogni sofferenza – laddove fosse realizzabile – finirebbe in realtà per produrre un individuo infelice e disadattato, impreparato a vivere in un mondo abitato dagli altri e dai loro bisogni. È un dovere del genitore aiutare il figlio a separarsi da lui e ad aprirsi al mondo circostante, perseguendo quella che dovrebbe essere la finalità precipua dell'educazione: l'autonomia del bambino. Senza dubbio, il percorso verso l'autonomia è lungo, delicato e intricato per entrambi i poli della relazione: prima ancora dei figli, anche i genitori hanno bisogno di essere aiutati ad allentare il legame di reciproca dipendenza con la prole, per esempio imparando a non ingabbiare asfitticamente la propria identità solo nel ruolo paterno o materno. Il rapporto con i figli si rivela, infatti, per molti totalizzante; il genitore è sempre in bilico tra il timore dell'abbandono (sotto la forma dell'indifferenza e del disinteresse), e il rischio dell'iperinvestimento. 

A volte, però, nasce un conflitto di interessi: 

il genitore può avere difficoltà a lasciare andare il figlio, può temere per la sua incolumità perché è lui stesso insicuro o perché ricorda o amplifica le difficoltà da lui incontrate quando era bambino».

La tendenza del genitore a proteggere il bambino cela, in questi casi, il bisogno di proteggere sé stesso, nella convinzione che avere un figlio che si differenzia da lui sia una forma di disapprovazione per il modello che incarna o, addirittura, una minaccia alla sua stessa integrità personale. Di conseguenza, il genitore inizia a nutrire del risentimento di fronte agli sforzi del figlio di rendersi indipendente, leggendo questi sforzi come un segno di ingratitudine o di non apprezzamento per quanto ha fatto per lui. L'incapacità di accettare la diversità di cui il figlio è portatore induce a volerlo plasmare a propria immagine e somiglianza. «Ma per un bambino che cresce è di vitale importanza non sentirsi una semplice estensione dei suoi genitori». I figli che crescono provocano a volte nei genitori un terribile senso di perdita: perdita del ruolo, dell'identità, oltre che del loro bambino. La distanza che li separa dai figli può sembrare un immenso abisso. 

Ma è proprio questo sforzo di essere diverso, distinto dal genitore, che darà poi all'adolescente la fiducia e l'autostima necessarie per diventare una persona forte e creativa e per stabilire rapporti positivi con gli altri. Ogni genitore dovrebbe cercare il necessario equilibrio tra istinto di protezione e promozione dell'autonomia, diritto di trattenere e dovere di liberare. 

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