Il Paese del Non Detto: un Referendum tra slogan, silenzi e tatticismi

10.06.2025

di Paolo Scarabeo

C'è stato un tempo in cui i Referendum erano battaglie ideali, scontri tra visioni del mondo, strumenti per allargare la partecipazione democratica. Oggi, invece, somigliano sempre più a partite truccate in cui il risultato è noto già al fischio d'inizio. Il Referendum di questi giorni - cinque quesiti, cinque fallimenti - è la fotografia di un Paese che ha smesso di parlarsi e ha imparato a urlare solo dentro le proprie bolle.

Il quorum, come previsto, non è stato raggiunto. Non lo dice nessuno apertamente, ma era questo l'obiettivo di molti. A partire da chi avrebbe dovuto incarnare le Istituzioni e invece ha scelto il disimpegno strategico: la Presidente del Consiglio che si reca al seggio, si fa fotografare, ma non ritira le schede. Il Presidente del Senato - seconda carica dello Stato - che invita esplicitamente a disertare le urne. Un tempo sarebbe stato uno scandalo, oggi è solo un'altra puntata del teatrino.

E così mentre a destra ci si inventa difensori della patria solo quando fa comodo, a sinistra si continua a ballare sul Titanic delle ideologie logore, incapaci di trovare una voce unica persino su temi che dovrebbero essere elementari. Prendiamo il quesito sulla cittadinanza, trasformato in una crociata identitaria: da una parte chi urla al "complotto per svendere la nazione", dall'altra chi si limita a dire "votate sì" senza mai spiegare davvero perché.

Lo spettacolo è stato desolante. Nessuna chiarezza sui contenuti, solo slogan. Quesiti, come quello sulla sicurezza sul lavoro, materia in cui non c'è chiarezza nemmeno tra gli esperti, dati in pasto alla "pancia" delle appartenenze di partito, come se la vita e la morte fossero di destra o di sinistra! E a pagare il prezzo, ancora una volta, sono i cittadini, soprattutto i più giovani, disillusi e schifati da una politica che pare interessata solo a regolare conti interni. Il tema della cittadinanza - che riguarda decine di migliaia di ragazze e ragazzi nati e cresciuti in Italia - è stato ridotto a un totem ideologico, anziché affrontato con la serietà che merita. Non bastava gridare "ius soli" o "ius scholae", bisognava spiegare cosa significava, quali diritti avrebbe garantito, quale visione di società c'era dietro.

E invece no. Niente dialogo, niente confronto. Solo vignette, meme, frasi a effetto da talk show. Mentre il Paese reale, quello che lavora, che cresce figli in scuole pubbliche fatiscenti, che guarda attonito i miliardi destinati al riarmo mentre si tagliano fondi a sanità e trasporti, mentre non si riesce ad arrivare a fine mese, resta al margine. Invisibile.

C'è anche chi, con malizia, oggi scrive che "anche quelli di sinistra hanno votato NO". È il gioco sporco del relativismo politico: se non voti come voglio io, allora hai tradito la tua parte. Ma forse il problema è proprio questo: trattare ogni questione come una guerra di appartenenza e non come un'occasione per capire, mediare, costruire.

Nel trionfo del non detto e del non fatto, chi ci rimette è l'idea stessa di democrazia. Perché se un Referendum serve solo a regolare i conti tra correnti e leader in cerca d'autore, allora non è più uno strumento di partecipazione, ma un alibi.

Alla fine resta un Paese stanco, arrabbiato, confuso. Un Paese che avrebbe bisogno di risposte e invece riceve solo urla. Un Paese che avrebbe bisogno di visione e invece si accontenta di tatticismi. Un Paese che, a forza di dividersi su tutto, rischia di non riconoscersi più neanche nelle proprie istituzioni.

Ma finché la politica sarà solo un ring per gladiatori mediatici, finché il confronto sarà solo scontro, finché si parlerà alla pancia e non alla testa, continueremo a sprecare occasioni. E continueremo a chiederci, inutilmente, perché i giovani non credano più nella politica.

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