Il ponte sullo Stretto è una follia tutta italiana

07.08.2025

di Mario Garofalo

Lo dirò senza mezzi termini: l'idea di costruire il ponte sullo Stretto di Messina è una delle manifestazioni più evidenti della malattia cronica che affligge la politica italiana. Una malattia che si nutre di gigantismo inutile, propaganda vuota e disprezzo totale per le priorità reali del Paese.

Mi chiedo con quale coraggio si possa continuare a vendere questa opera come "strategica", quando chiunque metta piede in Sicilia o in Calabria sa benissimo che mancano le basi, letteralmente: strade dissestate, linee ferroviarie obsolete, trasporti pubblici disorganizzati, collegamenti interni ai limiti della sopravvivenza civile. In questo scenario, parlare di un ponte sospeso tra due terre abbandonate è un esercizio di cinismo, non di lungimiranza.

Il problema non è solo economico, anche se già basterebbe. Sappiamo tutti che sarà un'opera miliardaria, con costi che lieviteranno anno dopo anno, come sempre accade in Italia. E chi pagherà? Naturalmente, lo Stato. Cioè noi. Con quali benefici tangibili per i cittadini? Nessuno è ancora riuscito a spiegarlo in modo convincente.

Ma la questione, a mio avviso, è ancora più grave. Perché il ponte sullo Stretto è il simbolo di una mentalità fallimentare: quella che preferisce costruire qualcosa di vistoso – un'opera "iconica", come la chiamano – invece di rimettere in piedi ciò che già esiste e cade a pezzi. È il trionfo della politica da conferenza stampa, dell'ingegneria da rendering, della pianificazione da talk show.

Il ponte è utile solo a chi lo promette. Serve a raccogliere consensi, a sventolare la bandiera del cambiamento mentre tutto resta uguale, o peggiora. Non serve ai cittadini calabresi che ogni giorno lottano per raggiungere un ospedale decente. Non serve ai siciliani che devono scegliere tra ore di treno fatiscente o voli a prezzi esorbitanti per uscire dalla loro isola. Non serve a un Sud che continua a perdere giovani, lavoro e fiducia.

E allora diciamolo chiaro: non c'è nulla di moderno in questo progetto. Anzi, è vecchio. Vecchissimo. È un'idea stantia, figlia di un'Italia che non riesce a riformarsi e si rifugia nei sogni faraonici perché incapace di gestire il quotidiano. È la solita scorciatoia propagandistica per evitare le vere sfide: combattere la disoccupazione, ridurre i divari sociali, costruire uno stato efficiente.

Si continua a parlare di "collegare" le due sponde. Ma come si può parlare di connessione tra due territori che, all'interno, sono scollegati da decenni? Quale credibilità ha un'opera che parte dal nulla e arriva nel nulla?

E soprattutto: quanto dobbiamo ancora tollerare questa distorsione delle priorità? Perché ogni volta che si parla di Sud, si tira fuori il ponte, e non i treni, le scuole, gli ospedali, l'accesso ai servizi essenziali? Perché si preferisce costruire un simbolo, invece che garantire i diritti?

Il ponte sullo Stretto non è una soluzione. È una distrazione. Un diversivo utile solo a chi vuole continuare a governare senza cambiare nulla. È l'ennesimo specchio per le allodole in un Paese dove i sogni si pagano sempre con i soldi degli altri. E spesso anche con il futuro degli altri.

Io non ci sto. E come me, chi ama davvero il Mezzogiorno non dovrebbe stare zitto davanti a questa farsa. Il Sud ha bisogno di tutto, tranne che di un ponte. Ha bisogno di rispetto, investimenti veri, infrastrutture reali, diritti concreti. Non di illusioni sospese tra due coste dimenticate.

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