Il silenzio selettivo del Paese: se il fallimento ha residenza al Nord
di Mario Garofalo
C'è un'Italia che può sbagliare in pace, che può sforare di mezzo miliardo i conti pubblici destinati a un grande evento internazionale come le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 senza che si levi una voce severa, senza che un conduttore televisivo pretenda un processo in prima serata, senza che un editoriale parli di "emergenza etica", senza che un sociologo ci spieghi in prima pagina che è colpa di una cultura della scorciatoia e dell'inefficienza; e poi c'è un'altra Italia, che vive da decenni sotto il peso dello stereotipo, che deve giustificarsi anche quando prova a rialzarsi, che viene osservata col microscopio da un'opinione pubblica sempre pronta a rilevare il minimo scarto tra dichiarato e realizzato, tra progetto e realtà, come se ogni centesimo in più fosse la conferma di un destino ineluttabile, come se ogni ritardo fosse la prova di un DNA collettivo guasto.
La notizia è semplice: la macchina olimpica Milano-Cortina ha già sforato il budget previsto di 500 milioni di euro, e la copertura arriverà, puntuale, dallo Stato, cioè da tutti noi, senza troppi dibattiti, senza allarmi, senza neppure quel gesto simbolico di un "mea culpa" istituzionale. Nessuno, tra gli editorialisti solitamente inclini alla denuncia, ha osato parlare di "fallimento del modello settentrionale", nessuno ha messo in discussione il "mito dell'efficienza padana", nessuno ha suggerito di spostare altrove la gestione dell'evento. Eppure si tratta, dati alla mano, di un'inadempienza amministrativa grave, di una pianificazione che ha evidentemente sottovalutato rischi, costi, infrastrutture, con la beffa finale di impianti non pronti, deleghe spostate e promesse svanite.
Immaginiamo per un istante — solo per onestà intellettuale — se questo stesso disastro organizzativo si fosse verificato in una città del Sud: se a Palermo o a Napoli, a Bari o a Reggio Calabria, si fosse annunciato un buco da mezzo miliardo per un evento internazionale, oggi staremmo parlando di "scandalo nazionale", staremmo ascoltando sermoni infiniti sull'inaffidabilità gestionale del Mezzogiorno, sulle responsabilità di una "classe dirigente inadeguata", sulla "questione meridionale" risorta sotto nuove spoglie. Ci sarebbero speciali televisivi, titoli a caratteri cubitali, politici con l'indice puntato, editoriali indignati e interviste a imprenditori "che scappano". E invece no, Milano-Cortina può sforare i conti, perché si dà per scontato che, trattandosi del Nord, "qualcosa si farà", "i soldi non sono sprecati, ma investiti", "le difficoltà fanno parte del gioco". È il doppio standard con cui l'Italia giudica sé stessa: benevola con chi ha il potere di rappresentare la "normalità", impietosa con chi, da secoli, viene percepito come eccezione patologica.
Ciò che fa più male, oggi, non è il disavanzo economico, ma il silenzio politico-mediatico che lo avvolge. Non è solo questione di fondi, ma di narrazione: nel Paese in cui ogni euro destinato al Sud deve essere accompagnato da giustificazioni preventive e giuramenti di trasparenza, il Nord può pretendere senza spiegare, può sbagliare senza subire processo, può chiedere ancora senza dover dimostrare. E allora chiediamoci: quanto di questo Paese è davvero unito, se a parità di errore non corrisponde parità di giudizio? Quanto è vera l'unità repubblicana, se i bilanci del Nord vengono trattati come fisiologia e quelli del Sud come sintomo?
Il Sud non chiede favoritismi, chiede equità. Non chiede silenzi protettivi, chiede coerenza. E forse, un giorno, quando un'emergenza a Milano verrà trattata come un'emergenza a Catania, e un'inadempienza a Torino verrà raccontata con la stessa severità usata per una a Taranto, potremo dire di vivere in un Paese finalmente guarito da un pregiudizio che resiste più di ogni contabilità.
