Il Tempo dell’Essere: il richiamo della gradualità nel dolore di Martina

di Paolo Scarabeo
C'è una parola che sembra aver perso cittadinanza nella nostra epoca ossessionata dalla fretta: gradualità. Una parola silenziosa, sobria, che non ama i riflettori, ma senza la quale tutto perde forma, sostanza, direzione. È la parola che, come un filo d'oro, attraversa in controluce la tragedia che ha spezzato la giovane vita di Martina Carbonaro. Una vicenda dolorosa, intricata, che non può e non deve ridursi a un episodio di cronaca nera. Martina – il suo nome ormai inciso su ogni pagina di cronaca, come su ogni bacheca Social – è divenuta, suo malgrado, simbolo di una riflessione urgente: che ne è del tempo giusto per ogni cosa?
Scorrendo le pagine della Bibbia, in quel testo inquieto e profondo che è il Qoelet, ci imbattiamo in una sapienza antica: "C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere…". Un tempo, aggiungerei, per essere bambini, per essere adolescenti, per sbagliare, per imparare, per diventare adulti. Un tempo da vivere intero, con tutti i suoi passaggi. Ma oggi, chi ce lo insegna più?
Viviamo immersi in un paradosso culturale: ci diciamo liberi, eppure siamo prigionieri del dover essere sempre già altro. Più grandi, più esperti, più pronti. Adolescenti che si travestono da adulti, che bruciano le tappe in una corsa che non porta da nessuna parte. Mamme quarantenni che inseguono i trend delle figlie, papà che sembrano aver lasciato la maturità in fondo a un cassetto, chiuso con la chiave della nostalgia.
La gradualità – ce lo ricorda la tragedia di Martina – non è lentezza o arretratezza, ma un atto di profonda intelligenza emotiva e spirituale. È il saper riconoscere il tempo presente, abitarlo, non rifiutarlo. È il coraggio di vivere la propria età senza l'ansia di proiettarsi in avanti, senza la paura di sembrare "indietro". È, in fondo, una forma di fede nella vita: credere che ogni stagione ha un senso, un valore, una bellezza.
Ne parlavo, stamattina, con i ragazzi e le ragazze, coetanei di Martina, a Scuola. Loro – incredibilmente più lucidi di molti adulti – ascoltavano in silenzio. Qualcuno annuiva. Qualcuno, alla fine, ha detto piano: "Ma allora non siamo sbagliati noi… è il mondo che corre troppo".
Ecco, forse è tutto lì. In quel non siamo sbagliati noi c'è la chiave. Non sono "sbagliati" gli adolescenti che vivono i turbamenti dell'età. Sbagliato è un mondo che li spinge a interpretare ruoli per cui non hanno ancora ricevuto il copione. Sbagliato è chi confonde una "sbandata" per amore, un'attrazione per legame, un bisogno di affetto per dipendenza emotiva. Ma in tutto questo non c'è giudizio, c'è solo il bisogno – anzi, la sete – di una nuova narrazione.
Ovviamente, non si tratta di negare l'evidenza: quella di Martina è l'ennesima storia di un femminicidio, frutto di un'immaturità affettiva, certo, ma anche – forse soprattutto – di un vuoto culturale. È il tragico esito di un'assenza formativa che ha smesso da tempo di educare all'umano, al rispetto dell'altro, all'autenticità dei sentimenti. Non basta più condannare il patriarcato, occorre superare lo stereotipo, uscire dalla retorica e affondare le radici in qualcosa di più profondo e radicale: la riscoperta del rispetto come valore fondante, imprescindibile, il rispetto della vita come bene supremo, non negoziabile. Non per una questione morale, ma per una questione di sopravvivenza dell'umano.
Non si tratta, come ha scritto qualcuno con troppa leggerezza, di "giocare con le bambole invece che con i sentimenti". Si tratta di educare al sentire, alla delicatezza che ogni emozione merita, al fatto che anche l'amore è un percorso. Che l'innamoramento non è ancora amore, che l'amore richiede radici e tempo. Che ogni fiore ha il suo tempo per sbocciare – e se lo forzi, si spezza.
La storia di Martina ci chiede di fermarci. Di ascoltare. Di insegnare – e imparare – che la fretta uccide, ma il tempo costruisce. Ci chiede, soprattutto, di tornare a credere nella bellezza della gradualità. Non per rimanere fermi, ma per camminare con passo sicuro verso ciò che saremo. Quando sarà il tempo. Solo allora.
