Io e mio figlio

03.04.2024

di don Salvatore Rinaldi e Chiara Franchitti

«Come posso rinunciare al mio ruolo di guida e protettrice di un figlio che, quando esce nel mondo, potrebbe esporsi a mille pericoli, potrebbe essere "uncinato" da persone che non lo amano come lo amo io, che non lo conoscono quanto lo conosco io, che non pensano al suo bene come so pensarci io?». Sono queste le domande che molte madri si pongono e di fronte alle quali spesso vanno in crisi, perché rinunciare al proprio ruolo protettivo, a quel potere totale che, fino al giorno prima, ha loro consentito di vestire, lavare, nutrire, coccolare un figlio "bambino" è davvero difficile. E a volte anche molto doloroso. 

La relazione affettiva tra madre e figlio in prima e seconda infanzia è spesso così intensa e totale che sembra che le mamme posseggano una "password" che fino alla preadolescenza permette loro di avere accesso incondizionato non solo alla cura concreta e pratica del figlio (bisogni primari), ma anche al mondo interno, quello dei pensieri e delle emozioni. Dopo il lungo allenamento dei primi tre anni di vita, speso a dare parola a ciò che il bambino non sa dire, a decodificarne il linguaggio emotivo, a trasformarne i gesti in parole dense di significato, la mamma può giustamente tenerlo per mano per tutto il tempo della seconda infanzia "sapendo di sapere" tutto quello che c'è dentro e fuori di lui, "sentendo quello che lui sente". Del resto, le stesse neuroscienze hanno confermato che lo sviluppo cognitivo-emotivo di un figlio è tanto più efficace e armonico, quanto più la diade madre-bambino riesce a creare quello stato di sintonizzazione emotiva, per cui entrambi sentono e condividono una realtà psichica integrata e speculare, così come confermato anche dagli studi relativi al funzionamento dei neuronimirror, che lavorano sincronicamente dando origine al fenomeno dell'empatia. 

Di tale simbiosi tra madre e figlio, quella che nei primi mesi fondeva corpo, cibo, emozioni in un'unità indissolubile, restano molte tracce in tutto il ciclo di vita di una persona. In adolescenza, però, la sintonizzazione emotiva, messa a punto sin dal primo giorno di vita, sembra, soprattutto al figlio, più un ingombro che un vantaggio, più un vincolo che una risorsa. Molti adolescenti si sentono e spesso si dichiarano invasi dalle operazioni di vicinanza e controllo materne. Le mamme che entrano nella stanza a fare ordine, che vogliono accarezzare i capelli, che chiedono come va la vita sentimentale dei loro figli adolescenti sono di frequente additate e indicate da questi ultimi come intrusive, impiccione, incapaci di farsi i fatti propri. È come se chiedessero alla mamma di sintonizzarsi su un'altra frequenza emotiva e in effetti spesso accade che un figlio imponga alla madre il cambiamento delle regole del loro rapporto. 

L'adolescenza di un figlio può permettere a molte mamme di ridiventare padrone di parte della propria vita e di dedicarsi a molti nuovi progetti. In qualche modo è come se iniziassero una nuova fase della propria esistenza. La nascita sociale che accompagna l'adolescenza del figlio coincide, infatti, con un analogo reingresso della mamma all'interno di un circuito di attività. Spesso le mamme si struggono affermando: «Io e mio figlio non ci capiamo più. Fino a ieri di lui sapevo o intuivo tutto. Ora, invece, mi è totalmente sconosciuto». Molte donne si sono letteralmente perse nell'amore per il figlio, "usandolo" magari per curare antiche ferite o come conforto per relazioni coniugali insoddisfacenti e infelici. 

Paradossalmente, poi, sono i figli più invischiati dall'ossessività materna a mettere in atto le strategie di distanziamento più clamorose: se la madre li vestiva di tutto punto e li lavava con il sapone profumato, non è inusuale che diventino capelloni, puzzolenti e trasandati. La sofferenza che ne consegue per la mamma viene, d'altra parte, potenziata dalla convinzione che tale comportamento sia dovuto al fatto che ha smesso di amarla e molte volte, infatti, sono le mamme che si domandano: «Perché mio figlio non mi vuole più bene?». Aiutare una mamma che soffre per la separazione che la crescita di un figlio le impone significa spesso aiutarla a vedere ciò che è invisibile (per lei) nei comportamenti di distanziamento relazionale di cui si sente vittima. 

Travolte dalla tristezza, le donne in crisi per l'adolescenza dei figli dovrebbero essere accompagnate a comprendere che ciò con cui si confrontano non è il "non amore" del figlio, ma semplicemente una sana "rivoluzione" di cui egli ha un fisiologico desiderio. Un figlio si ribella perché vuole imparare a capire chi è e soprattutto diventare se stesso, unico e originale, non una semplice protesi delle aspettative altrui e delle ansie materne. "Fare la rivoluzione" a volte comporta operare transitorie lacerazioni nella relazione privilegiata con la mamma, utilizzare parole dure che servono a demarcare confini e territori che ancora non sono chiari ad entrambi. 

È importante sottolineare che la ribellione avviene nei confronti di qualcosa che si sente molto vicino, diremmo quasi che è l'altro lato della medaglia di un rapporto che ha funzionato sui binari della vicinanza e dell'amore. A volte, figli troppo amati devono davvero obbligare i genitori a separarsi da loro, in modo plateale, "violento". Del resto, tutto è già cominciato qualche anno prima, con operazioni di distanziamento più mascherate («Mamma, per favore, quando mi accompagni a scuola evita di portarmi fino al cancello»; «Mamma, si bussa prima di entrare in camera», ecc.). Probabilmente anche di fronte a queste prime avvisaglie di separazione, la madre sperimentava una piccola "stretta al cuore", ma era un dolore sopportabile, il figlio continuava a rimanere nel suo raggio d'influenza, ora invece esce di casa, sbatte la porta, dice cose che è meglio non ripetere. 

Ora quel bambino non c'è più, si è trasformato, e questa trasformazione rischia di lasciare sola e confusa la mamma che invece può rinascere a nuova libertà in cui le preoccupazioni, un tempo alimentate dalla fatica di vedere crescere un figlio, ora possono lasciare il posto a quella parte di sé che ancora aspetta di essere nutrite e coltivata. Se possibile, all'interno di una nuova fase, ricca e piena di possibilità, anche del proprio rapporto di coppia.

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