Italia, il Paese che chiude le scuole invece di aprire speranze

21.08.2025

Un'analisi critica su una strategia di governo che sancisce l'abbandono di milioni di cittadini: più che un piano, una condanna mascherata da logica "tecnica"

di Ma.Go.

Mentre il resto d'Europa punta sulle aree rurali per creare nuove opportunità e contenere il collasso sociale ed economico, l'Italia opta per una scorciatoia crudele e burocraticamente perfetta: dichiarare morte alcune porzioni del suo territorio. Non in senso figurato, ma quasi letterale. Lo fa con la freddezza di un documento tecnico, il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021–2027, che all'obiettivo 4 parla chiaro: "accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile". Tradotto: alcune aree del Paese sono ufficialmente considerate perdute. E quindi abbandonate.

La parola chiave non è strategia, ma resa. Il governo non solo alza bandiera bianca, ma la issa in modo orgoglioso, stabilendo con calcolata lucidità quali territori meritano ancora investimenti e quali, invece, devono essere "gestiti passivamente". Una terminologia tanto tecnocratica quanto spietata: dietro la neutralità delle parole si cela un progetto di desertificazione umana e culturale.

3.800 scuole già chiuse. Altre 1.200 in lista d'attesa per la soppressione.

La scuola, da sempre presidio di comunità, fucina di cittadinanza e argine allo spopolamento, viene trattata come un fastidio logistico. Tagliare le scuole nei piccoli comuni non è solo una misura amministrativa: è un colpo mortale alla possibilità stessa di un futuro. Con la chiusura dell'unica scuola del paese, si chiude anche l'ultima porta per restare. E chiudendo quella porta, si costringe alla fuga chi avrebbe ancora sperato di rimanere.
I numeri parlano da soli: oltre 2.600 scuole già sparite, e altre 1.200 destinate allo stesso destino entro il 2030. Tutto questo nel nome dell'"efficienza". Una parola magica che, nel linguaggio dei tagli, giustifica l'abbandono.

L'Italia a due velocità? No, a due diritti.

Il PSNAI crea ufficialmente un'Italia a doppio binario: città ipertrofiche e campagne-cimitero, dove ai bambini si dice, con cortesia istituzionale: "Non c'è posto per voi". Un'Italia che rinuncia al principio costituzionale dell'eguaglianza, trasformando i diritti in privilegi geografici.
Si parla di "servizi essenziali", ma l'unico servizio offerto in queste zone è l'assistenza al declino: un welfare compassionevole per anziani, senza alcuna reale intenzione di trattenere le famiglie, i giovani, i bambini. Altro che rigenerazione. È eutanasia sociale.
Dove sono finite le politiche per il territorio?

Svanite, o peggio ancora, trasformate in necrologi statistici. Il documento ministeriale si limita a constatare ciò che tutti sanno: i comuni delle aree interne perdono abitanti, i giovani fuggono, i servizi mancano. Ma invece di proporre soluzioni, investimenti, innovazioni, il governo si limita a certificare il decesso di interi territori, come un medico legale che compila un referto, non uno Stato che dovrebbe prendersi cura.

Le reazioni, fortunatamente, non sono mancate. Sindaci, studiosi, associazioni territoriali, urbanisti, insegnanti: tutti uniti in un coro di sdegno. Eppure, tutto tace nelle stanze del potere. Come se, una volta dichiarata "l'irreversibilità", qualsiasi ulteriore sforzo fosse inutile. Come se la politica fosse diventata geografia del cinismo.

Una scuola chiusa è una comunità mutilata

Chiudere una scuola non significa solo chiudere un edificio. Significa togliere futuro, cultura, legami sociali. I dati lo confermano: dove chiude la scuola, la popolazione scolastica si riduce fino al 16%, gli adulti in età attiva emigrano, i redditi comunali calano fino al 12%. Si innesca un ciclo infernale da cui è difficilissimo riemergere.
E il governo cosa fa? Invece di interrompere il ciclo, lo certifica. Con la retorica del "declino inevitabile", consegna intere zone d'Italia all'oblio. Una scelta politica che non ha nulla di tecnico: è ideologica, è rinunciataria, è colpevole.

La domanda è semplice: a chi serve tutto questo?

Non certo ai cittadini. Non certo ai giovani. Non ai territori. Forse serve a far quadrare bilanci di breve periodo, a ridurre spese, a facilitare accorpamenti. Ma è una miopia che costerà cara. Perché una nazione senza scuole è una nazione che si condanna a diventare appendice turistica del mondo, bella e vuota.

Il nostro Paese ha ancora energie, competenze, territori straordinari. Ma servono visione, coraggio, investimenti. Altro che accompagnamento al tramonto. È tempo di riaprire le scuole, non di chiuderle. È tempo di piantare semi, non lapidi. Perché senza scuola, senza giovani, senza opportunità, non c'è patria che tenga.

E se un governo sceglie di "amministrare il declino" invece che contrastarlo, non ci resta che chiederci: a che serve lo Stato, se non a difendere i suoi cittadini, tutti i suoi cittadini, ovunque essi vivano?

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