L’università che scompare. Viaggio nell’Italia che ha smesso di credere nella conoscenza
di Mario Garofalo
Quando si parla di università in Italia, si parla quasi sempre con toni celebrativi, retorici, a volte solenni. Si evoca l'importanza del sapere, si citano gli antichi fasti di atenei storici, si sottolinea – talvolta con orgoglio – come le nostre eccellenze accademiche riescano ancora a farsi strada in classifiche internazionali e contesti competitivi. Ma dietro questo linguaggio di superficie si nasconde una realtà che da anni viene compressa, ignorata, relegata al margine delle priorità pubbliche. Un'indagine nei documenti finanziari e nei bilanci di previsione degli ultimi tre anni rivela un quadro impietoso, che smonta ogni narrazione ottimistica: il sistema universitario nazionale è stato oggetto di un progressivo e sistematico disinvestimento.La cifra complessiva è già circolata, ma vale la pena tornare a fissarla: 518 milioni di euro in meno nel triennio 2022–2025, tra tagli diretti e fondi mai erogati. Il cuore del sistema – il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), cioè il meccanismo con cui lo Stato garantisce la sussistenza operativa degli atenei – è stato ridotto di 178 milioni di euro nel 2024, una contrazione netta, pianificata e formalizzata all'interno della Legge di Bilancio. A questa riduzione si somma il mancato trasferimento dei 340 milioni previsti dal Piano Messa, risorse destinate ad ammodernare infrastrutture, aumentare la sicurezza degli edifici universitari e sostenere la didattica. Soldi annunciati e mai arrivati.
Nel 2025 si registra un modesto aumento del 3,73% nella spesa per l'università. Una variazione percentuale che, scomposta nelle voci reali, si traduce in una boccata d'ossigeno insufficiente. La matematica, qui, è più eloquente delle intenzioni politiche: l'aumento previsto non copre nemmeno la perdita accumulata, lasciando il sistema in uno stato di sottofinanziamento strutturale. A partire dai laboratori scientifici che non riescono a mantenere il passo con la ricerca europea, passando per le biblioteche universitarie che chiudono il sabato, fino ai docenti a contratto pagati con compensi che sfiorano il ridicolo – e che spesso arrivano con mesi di ritardo –, tutto grida precarietà.
Ma la fotografia più allarmante emerge osservando la distribuzione territoriale dell'impatto. Le università del Sud Italia, che già partono da una condizione di svantaggio in termini di dotazione infrastrutturale e autonomia finanziaria, sono quelle che hanno subito i colpi più duri. Secondo i dati raccolti da QuiFinanza e rielaborati dalla nostra redazione, le province di Palermo, Catania e Messina risultano fra le più penalizzate in termini di trasferimenti pro capite. In queste realtà, l'università rappresenta spesso l'unico ascensore sociale rimasto, il solo argine alla desertificazione intellettuale e produttiva del territorio. Tagliare qui significa accelerare un processo già in atto: l'emigrazione intellettuale verso il Centro-Nord o l'estero, lo spopolamento dei campus, la perdita di fiducia nei confronti dell'istruzione pubblica come strumento di riscatto.Ciò che colpisce è l'impatto economico e l'assenza di una visione nazionale sulla funzione dell'università nel XXI secolo. Da almeno tre legislature, il sistema accademico italiano è gestito come se fosse un ramo secondario dell'amministrazione pubblica, da tenere in vita con l'indispensabile e con continue richieste di rendicontazione. Manca una strategia che leghi università e sviluppo industriale, innovazione e politica culturale, formazione e coesione sociale. Gli atenei non vengono pensati come infrastrutture vitali per il futuro del Paese, ma come centri di spesa da controllare e contenere.
L'attuale governo, nonostante le dichiarazioni di principio, non ha invertito questa tendenza. Al contrario, ha istituzionalizzato la marginalità dell'università, spingendo il sistema a reggersi sulle tasse studentesche, sull'autofinanziamento e su un sistema di reclutamento spesso opaco e inefficiente. In assenza di investimenti pubblici, la distanza tra atenei di serie A e atenei di serie B – con tutte le implicazioni sociali che questo comporta – si allarga ulteriormente. Eppure, il nodo più grave resta quello democratico. Un'università impoverita non è solo un'istituzione che funziona peggio: è un luogo che perde la capacità di elaborare pensiero critico, di produrre autonomia, di formare cittadini in grado di orientarsi in una società complessa. La compressione del sistema universitario produce, in fondo, una società meno libera, meno attrezzata a confrontarsi con i grandi dilemmi del nostro tempo – dalla transizione ecologica all'intelligenza artificiale, dalla giustizia sociale al futuro del lavoro. Il punto, allora, riguarda solo quanti soldi vengono stanziati, che idea di Paese si intende costruire. Se si decide di sottrarre risorse all'università, non si sta semplicemente ricalibrando un bilancio: si sta scegliendo di rinunciare a una parte decisiva del nostro futuro. E lo si fa consapevolmente, nel silenzio assordante di una politica che ha smesso di interrogarsi sul valore della conoscenza.
Gli studenti e i docenti delle università italiane non chiedono privilegi, né salvacondotti. Chiedono condizioni dignitose per poter lavorare, studiare, innovare. Chiedono un Paese che creda nella cultura non solo nei discorsi commemorativi, ma nelle decisioni di spesa, nei piani strategici, nelle priorità legislative. Oggi questo patto è stato rotto. Ricostruirlo sarà difficile. Ma ignorarlo significa accettare che l'Italia si accontenti di diventare qualcosa di meno rispetto a ciò che potrebbe essere.
