La cena pasquale
In occasione del Giovedì Santo, giorno della cena pasquale die Gesù con i suoi discepoli, proponiamo una riflessione sul racconto che ne fa l'Evangelista Giovanni al cap. 13 del suo Vangelo, tratta dal libro "Per un'altra strada. La Chiesa e i suoi giovani che non ci sono più".
...al maestro Giorgio Mazzanti

Il capitolo 13 di Giovanni, quello in cui l'Evangelista in modo insuperabile racconta la cena pasquale di Gesù con i suoi discepoli, è certamente uno dei passi più intensi di tutta la Scrittura e ci fa comprendere quanto vero sia quello che amava ripetere il Cardinale Carlo Maria Martini:
"La Chiesa non vive attraverso grandi segni, grandi adunate di popoli, anche se ci vogliono. La Chiesa non vive attraverso la forza della sua identità. La sua identità è la povertà di Gesù, l'umiltà di Gesù, la compassione di Gesù, il perdono di Gesù".
La narrazione che Giovanni presenta in questo capitolo, che non va mai disgiunto dal cap. 10, lega insieme, in simbolo, la tavola dell'ultima cena di Gesù con il suo gesto di lavare i piedi degli apostoli. Questa lavanda (come ormai comunemente è definita) non solo e non semplicemente «sostituisce» la narrazione dell'istituzione dell'eucaristia, riportata invece nei sinottici e in 1Cor 11, ma la prepara anche, la predispone e la prefigura e in un certo qual modo ne deriva.
La lavanda «precede» ma in realtà ne procede. Mentre è profezia e chiave interpretativa del gesto eucaristico, ne è al contempo derivazione e partecipazione. L'intimo contenuto della lavanda dei piedi, che ogni giovedì santo ripetiamo quasi come un rito, deriva e procede da quello del gesto eucaristico di Gesù che anticipa, a sua volta, interpretandolo, il gesto della totale donazione di sé con il quale va incontro alla sua passione e morte in croce.
Lava i piedi dei suoi discepoli, li lava inginocchiandosi dinanzi a chi di lì a poco lo venderà per pochi vili denari, dinanzi a chi, promettendo fedeltà, addirittura di dare la vita, di lì a poco lo rinnegherà.
La Patrologia Syriaca ci consegna un elemento di forte impatto emotivo: dice che li lavò per primo a Giuda, prima che ai suoi amici, prima che al discepolo che Egli amava, lavò quegli stessi piedi che dopo poco correranno verso i giudei per venderlo e consegnarlo a morte.
Gesù lava i piedi dei suoi discepoli sapendo che il Padre gli aveva messo tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava. In questa lucida consapevolezza, si alzò da tavola, depose le vesti e preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita e versata dell'acqua in un catino iniziò a lavare i piedi dei suoi. Quando ebbe terminato, riprese le vesti e si rimise a tavola.
Il gesto del dono eucaristico e di servizio di Gesù diviene la prima ed estrema manifestazione del suo potere, del suo avere tutto nelle mani. E proprio queste mani lavano e asciugano dei piedi, le stesse mani che spezzano un pane e prendono una coppa colma di vino per farne dono ai suoi commensali.
Quelle mani, che hanno tutto nelle mani, esprimono ciò nel servizio umile e nel dono. Il potere assoluto delle mani è potere del servizio più umile e della dedizione più totale, quello per cui il più grande si fa ultimo fra tutti e servitore di tutti.
Aver potere è poter servire: tutto avere e tutto donare.
Ma c'è un di più.
La lavanda dei piedi si configura come un gesto di umile servizio del Signore, anche e soprattutto perché esprime l'atto con cui Egli purifica compiutamente i suoi apostoli. Cristo li fa «puri di cuore», perché li vuole e li rende degni di sedere alla sua tavola.
Il vero e radicale potere di servizio è l'atto del perdono. La lavanda dei piedi attesta e dimostra che Cristo ha nelle mani il potere di perdonare, datogli anche questo dal padre. La forma più alta del suo potere il dono è il suo potere il per-dono.
Ma è ancora forma ed effetto del suo aver tutto nelle mani, anche l'affidare alle mani degli apostoli quello che lui stesso ha fatto: fate questo in memoria di me. Quanto il Padre ha messo nelle sue mani, Cristo lo mette nelle mani dei suoi apostoli. Ad essi Cristo dona e chiede il suo stesso gesto. Vuole che il suo gesto di servizio/purificazione/perdono caratterizzi anche l'atteggiamento dei suoi discepoli tra di loro e con gli altri.
Per cui, un vero discepolo è sempre purificato/ perdonato, e questo non deve dimenticarlo mai, chiamato a sua volta a perdonare ogni altro fratello con lo stesso amore del Cristo e con lo stesso dono ricevuto dello Spirito santo.
Saremo pertanto donne e uomini capaci di perdono quando sapremo fare memoria del nostro essere donne e uomini perdonati.
In un certo senso, lavando loro i piedi, Cristo li prepara e li adegua a portare l'annuncio del Vangelo in tutto il mondo: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza" (Is 52,7).
Ma questa dignità e questo compito restano radicati nella lavanda dei piedi. È passando da qui che per la Chiesa si apre l'Altra strada.
Tutto questo ha una caratterizzazione ben definita e Cristo la consegna ai suoi nel cuore della cena: l'amore vicendevole. Sarà questo il loro statuto fondamentale e distintivo di vita, il Comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Credo fortemente che sia qui la reale e più vera chiave di lettura della crisi che la Chiesa sta attraversando, oscurando ancora di più l'orizzonte di Dio: l'incapacità di farsi veramente carico di questo amore. Nelle comunità, in cui bisognerebbe operare insieme per valorizzare ogni carisma - come ha messo in evidenza l'ultima istruzione 'Sulla conversione pastorale' delle parrocchie - preservando la Chiesa da possibili derive, come "clericalizzare" i laici o "laicizzare" i chierici o ancora fare dei diaconi permanenti dei mezzi preti o preti mancati. Nelle quali ancora si litiga per chi e quale tovaglia mettere sull'altare, su quali debbano essere i fiori o su quale debba essere il posto da occupare nei banchi o su chi debba guidare la recita del Rosario.
Nei gruppi e nelle associazioni, fugando definitivamente la tentazione "dell'orticello", abbattendone recinti e cancelli per aprirsi alla dimensione delle messi.
Nei presbitèri, in troppi casi ridotti ancora alla concezione architettonica dello spazio riservato al vescovo e al clero, in fondo alla navata centrale e terminato dall'abside, ben lontani dall'essere 'luogo' della fraternità sacerdotale e nei quali in molti casi non ci si conosce nemmeno più tra "confratelli".
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