La cena pasquale

31.03.2021

In occasione del Giovedì Santo, giorno della cena pasquale die Gesù con i suoi discepoli, proponiamo una riflessione sul racconto che ne fa l'Evangelista Giovanni al cap. 13 del suo Vangelo, tratta dal libro "Per un'altra strada. La Chiesa e i suoi giovani che non ci sono più".

...al maestro Giorgio Mazzanti

Il capitolo 13 di Giovanni, quello in cui l'Evangelista in modo insuperabile racconta la cena pasquale di Gesù con i suoi discepoli, è certamente uno dei passi più in­tensi di tutta la Scrittura e ci fa comprendere quanto vero sia quello che amava ripetere il Cardinale Carlo Maria Martini:

"La Chiesa non vive attraverso grandi segni, grandi adunate di popoli, anche se ci vogliono. La Chiesa non vive attraverso la forza della sua identità. La sua identità è la povertà di Gesù, l'umiltà di Gesù, la compas­sione di Gesù, il perdono di Gesù".

La narrazione che Giovanni presenta in questo ca­pitolo, che non va mai disgiunto dal cap. 10, lega insieme, in simbolo, la tavola dell'ultima cena di Gesù con il suo gesto di lavare i piedi degli apostoli. Questa lavanda (come ormai comunemente è definita) non solo e non semplicemente «sostituisce» la narrazione dell'istituzione dell'eucaristia, riportata invece nei sinottici e in 1Cor 11, ma la prepara anche, la predispone e la prefigura e in un certo qual modo ne deriva.

La lavanda «precede» ma in realtà ne procede. Mentre è profezia e chiave interpretativa del gesto eucari­stico, ne è al contempo derivazione e partecipazione. L'intimo contenuto della lavanda dei piedi, che ogni gio­vedì santo ripetiamo quasi come un rito, deriva e procede da quello del gesto eucaristico di Gesù che anticipa, a sua volta, interpretandolo, il gesto della totale donazione di sé con il quale va incontro alla sua passione e morte in croce.

Lava i piedi dei suoi discepoli, li lava inginoc­chiandosi dinanzi a chi di lì a poco lo venderà per pochi vili denari, dinanzi a chi, promettendo fedeltà, addirittura di dare la vita, di lì a poco lo rinnegherà.

La Patrologia Syriaca ci consegna un elemento di forte impatto emotivo: dice che li lavò per primo a Giuda, prima che ai suoi amici, prima che al discepolo che Egli amava, lavò quegli stessi piedi che dopo poco correranno verso i giudei per venderlo e consegnarlo a morte.

Gesù lava i piedi dei suoi discepoli sapendo che il Padre gli aveva messo tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava. In questa lucida consapevolezza, si alzò da tavola, depose le vesti e preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita e versata dell'acqua in un catino iniziò a lavare i piedi dei suoi. Quando ebbe terminato, ri­prese le vesti e si rimise a tavola.

Il gesto del dono eucaristico e di servizio di Gesù diviene la prima ed estrema manifestazione del suo potere, del suo avere tutto nelle mani. E proprio queste mani la­vano e asciugano dei piedi, le stesse mani che spezzano un pane e prendono una coppa colma di vino per farne dono ai suoi commensali.

Quelle mani, che hanno tutto nelle mani, espri­mono ciò nel servizio umile e nel dono. Il potere assoluto delle mani è potere del servizio più umile e della dedi­zione più totale, quello per cui il più grande si fa ultimo fra tutti e servitore di tutti.

Aver potere è poter servire: tutto avere e tutto do­nare.

Ma c'è un di più.

La lavanda dei piedi si configura come un gesto di umile servizio del Signore, anche e soprattutto perché esprime l'atto con cui Egli purifica compiutamente i suoi apostoli. Cristo li fa «puri di cuore», perché li vuole e li rende degni di sedere alla sua tavola.

Il vero e radicale potere di servizio è l'atto del per­dono. La lavanda dei piedi attesta e dimostra che Cristo ha nelle mani il potere di perdonare, datogli anche questo dal padre. La forma più alta del suo potere il dono è il suo potere il per-dono.

Ma è ancora forma ed effetto del suo aver tutto nelle mani, anche l'affidare alle mani degli apostoli quello che lui stesso ha fatto: fate questo in memoria di me. Quanto il Padre ha messo nelle sue mani, Cristo lo mette nelle mani dei suoi apostoli. Ad essi Cristo dona e chiede il suo stesso gesto. Vuole che il suo gesto di servizio/purificazione/perdono caratterizzi anche l'atteggiamento dei suoi discepoli tra di loro e con gli altri.

Per cui, un vero discepolo è sempre purificato/ perdonato, e questo non deve dimenticarlo mai, chiamato a sua volta a perdonare ogni altro fratello con lo stesso amore del Cristo e con lo stesso dono ricevuto dello Spi­rito santo.

Saremo pertanto donne e uomini capaci di perdono quando sapremo fare memoria del nostro essere donne e uomini perdonati.

In un certo senso, lavando loro i piedi, Cristo li prepara e li adegua a portare l'annuncio del Vangelo in tutto il mondo: "Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci che annuncia la pace, mes­saggero di bene che annuncia la salvezza" (Is 52,7).

Ma questa dignità e questo compito restano radi­cati nella lavanda dei piedi. È passando da qui che per la Chiesa si apre l'Altra strada.

Tutto questo ha una caratterizzazione ben definita e Cristo la consegna ai suoi nel cuore della cena: l'amore vicendevole. Sarà questo il loro statuto fondamentale e di­stintivo di vita, il Comandamento nuovo: «Vi do un co­mandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da que­sto sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Credo fortemente che sia qui la reale e più vera chiave di lettura della crisi che la Chiesa sta attraversando, oscurando ancora di più l'orizzonte di Dio: l'incapacità di farsi veramente carico di questo amore. Nelle comunità, in cui bisognerebbe operare insieme per valorizzare ogni ca­risma - come ha messo in evidenza l'ultima istruzione 'Sulla conversione pastorale' delle parrocchie - preser­vando la Chiesa da possibili derive, come "clericalizzare" i laici o "laicizzare" i chierici o ancora fare dei diaconi permanenti dei mezzi preti o preti mancati. Nelle quali an­cora si litiga per chi e quale tovaglia mettere sull'altare, su quali debbano essere i fiori o su quale debba essere il po­sto da occupare nei banchi o su chi debba guidare la recita del Rosario.

Nei gruppi e nelle associazioni, fugando definiti­vamente la tentazione "dell'orticello", abbattendone re­cinti e cancelli per aprirsi alla dimensione delle messi.

Nei presbitèri, in troppi casi ridotti ancora alla concezione architettonica dello spazio riservato al vescovo e al clero, in fondo alla navata centrale e terminato dall'abside, ben lontani dall'essere 'luogo' della fraternità sacerdotale e nei quali in molti casi non ci si conosce nemmeno più tra "confratelli".

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