La domanda è "pcchè?"
Oggi in Molise viene premiato Vittorio Feltri alla "Fierezza Sannita". Al di là della "geografia", ma sono davvero questi i modelli di cui essere fieri?
di Paolo Scarabeo
Non serve alzare la voce, oggi. Basta la domanda, asciutta come una pietra tirata contro un muro troppo liscio per restituire un'eco: "pcchè?".
Scritta così, come la pronuncerebbe una nonna affacciata sull'uscio, quando qualcosa non torna e l'aria sa di sbagli imminenti.
Oggi, in Molise, consegnano a Vittorio Feltri un premio che porta un nome importante, Fierezza Sannita.
Un nome che profuma di antenati duri, di confini difesi con le mani nude, di dignità tesa come un arco. E invece ci ritroviamo qui, con un riconoscimento appoggiato su un tavolo che scricchiola, perché non regge il peso delle parole che dovrebbe rappresentare.
Il Molise non è una regione perfetta - nessuna lo è - ma ha una sua educazione di paese: quella che si riconosce nei gesti prima ancora che nei discorsi. Accoglienza non ostentata, rispetto non messo in vetrina, inclusione che spesso non sappiamo neanche chiamare così, ma che facciamo quando possiamo, come possiamo.
Ed è per questo che l'assegnazione di un premio pubblico a chi, negli anni, ha sparso in tv e sui giornali un gergo di scherno e di derisione, ci stona.
Non per moralismo: per coerenza!
Basterebbero pochi esempi, quelli che tutti ricordano.
Quel luglio del 2018, quando Milano diventò un "vivaio di finocchi", detto con pacata sicurezza, come se la lingua fosse un coltello da usare senza mancare il colpo. Non una scivolata, non un'uscita mal calcolata: un'intenzione, rivendicata con compiacimento.
E poi maggio 2025, la battuta su Rai che trasformò le donne vittime di violenza in un pretesto per un ammiccamento da bar: "possono venire a casa mia. Se sono bone".
Basterebbe fermarsi un istante qui, in questo punto, per sentire il buio che scende sul discorso. Il dolore come siparietto. La dignità femminile ridotta a un sorriso sbilenco. L'ironia che diventa una scusa per non assumersi mai la responsabilità di nulla.
Potremmo aggiungere altri episodi, certo. Ma non serve.
Il nodo non è l'elenco delle frasi, è la scelta di celebrarle indirettamente premiando chi le pronuncia, come se fossero parte del paesaggio, come se tutto fosse normale.
E allora la domanda torna, secca e ostinata: pcchè?
Perché dovremmo essere fieri di un modello che non porta avanti nessuna comunità, che non apre varchi, che non aggiunge niente alla tessitura fragile delle relazioni umane?
Perché mostrare ai più giovani che si può dire qualunque cosa senza pagare dazio, anzi guadagnandoci pure applausi e targhe?
Il Molise non è un posto che ama i clamori, ma quando qualcosa ferisce l'idea che abbiamo di noi stessi - sia pure un'idea piccola e imperfetta - la voce si alza da sola, come una marea lenta che arriva fino alle ginocchia.
È la voce di chi dice "Non in nostro nome". E a questa voce aggiungiamo, fieramente (stavolta sì) la nostra!
È il fiato trattenuto di chi non vuole che la propria terra venga associata a chi ha usato il linguaggio per dividere invece che per unire.
E alla fine resta solo questo: un premio, una domanda, un senso di stonatura che non si scioglie. E una regione piccola, sì, ma capace ancora di provare vergogna quando serve. Che poi è il primo passo per tornare a essere fieri davvero.




