La lentezza è il motore della nostra attività, il dinamismo una nuvola di passaggio

23.09.2021

di Giammarco Rossi

Le cose belle sono lente. Diceva così Fermo (Felice Andreasi) in Pane e tulipani, pellicola straordinaria del duemila, diretta da Silvio Soldini. A pensarci bene il concetto di velocità-lentezza da sempre ha affascinato e insidiato le menti dei creativi e gli animi travagliati degli irrequieti, dei sensibili. Una penna eccelsa come quella di Milan Kundera ha addirittura scritto un intero romanzo, intitolato proprio La lentezza, una grande riflessione filosofica su questa misteriosa creatura che scandisce le esistenze ma che trova sempre più terreno arido poiché nel contemporaneo l'unico verbo conosciuto dall'individuo è accelerale.

Tutto è dettato dalla velocità, i tempi televisivi, la durata di un dibattito, una storia da raccontare o peggio, una notizia dia riportare. In sostanza non è importante il contenuto è lo stile con cui viene espresso, conta farlo bene, in maniera rapida e fulminea, poiché la velocità non dà il tempo di pensare e un individuo che non pensa è un individuo indottrinabile e facilmente manipolabile. La lentezza accompagna indirettamente il nostro esistere ma non ci diamo poi troppo peso: troppo indaffarati nello scorrere quotidiano degli eventi, troppo impegnati a rispettare scadenze e tempi tecnici e così non solo non si gode dell'attimo (cosa non obbligatoria, per carità!) ma si perde l'abitudine a dare il giusto tempo e peso alle cose. Se si vive per lavorare come obiettivo si ha il profitto e di conseguenza tutto è rapportato ai tempi produttivi, meno tempo impieghi nel fare qualcosa più profitto ricavi, questa soluzione spesso viene replicata anche nella vita, nella quotidianità: il risultato è disastroso.

Si finisce col parlare sempre meno e sempre in minor tempo, figurarsi ascoltare, significherebbe donare del tempo passivo ad un altro individuo. Ascoltare rientra in quelle molteplici attività che non comportano il mettere in pratica un'azione ma subirla, nelle società neoliberiste a trazione capitalista il subire è un termine negativo poiché è svincolato dal controllo.

C'è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.

Così scrive sempre Milan Kundera nel romanzo e, a pensarci bene, la sua è un'analisi tipica di una persona che conosce e usa la lentezza: solo chi dà il giusto tempo alle cose è in grado di soffermarsi su dettagli che l'individuo medio considererebbe futili e senza senso. Il discorso dello scrittore ceco è tuttavia diverso, la sua sensibilità, al servizio della creatività si concentra molto sulla psicologia, vede così la lentezza un qualcosa di prezioso all'interno dei rapporti e delle relazioni. Allargare questa riflessione su scala più ampia non è tuttavia proibitivo. Le nostre vite sono sempre con il piede sull'acceleratore, ignorando che accelerando troppo e sempre non è altro che la metodologia più comoda per arrivare prima alla morte, la vera grande paura dell'individuo contemporaneo, dolore e morte sono argomenti da non dover trattare. Nel tempo in cui tutti siamo speciali e bravi in qualcosa (politicamente corretto docet) ricordare che prima o poi torneremo polvere è errato: «la vita e meravigliosa e la morte non tocca la nostra unicità» o altre scemenze del genere.

Riabituarsi alla lentezza significherebbe riabituarsi a prendersi cura di sé stessi e degli altri ma in maniera seria e vera, non come suggeriscono quelle assurdità motivazionali utili solo ai conti in banca di chi le scrive. Perché sì, le cose belle sono lente, assaporarsi i momenti significa viverli. Vederli di sfuggita è solo e soltanto un patetico modo per agonizzare un'emozione, per avere un ricordo su cui piangere dopo una decade o anche più, con in testa la solita frase fatta tanto stupida quanto inutile: «come passa in fretta il tempo».

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