La Repubblica dei Precari: come lo Stato tradisce ogni giorno i suoi insegnanti
di Mario Garofalo
Ogni giorno, da questo giornale, raccontiamo l'Italia. E ogni giorno ci scontriamo con le stesse ferite aperte, le stesse promesse non mantenute, gli stessi giochi di prestigio della politica che finge di riformare mentre lascia tutto com'è. O peggio, lo peggiora. Oggi parliamo di scuola, e lo facciamo con la penna in pugno, perché non è più tempo di giri di parole.
Parliamo dei docenti precari. Non di quelli "in attesa di sistemazione", ma di quelli che già insegnano, da anni. Che mandano avanti il sistema scolastico tra supplenze annuali, cattedre fantasma e concorsi a ripetizione. Parliamo di persone che hanno passato selezioni estenuanti, che sono risultati idonei, ma che non vedono mai quella benedetta stabilizzazione. Parliamo di cittadini che lavorano per lo Stato, ma che lo Stato continua a trattare come tesserati a tempo determinato del disagio nazionale.
È ora di dirlo chiaramente: questo sistema è marcio. Illude, sfrutta, poi scarica. Invita al concorso, poi lo smentisce con nuove prove. Promette graduatorie stabili, poi le rimescola ogni due anni. Spinge gli insegnanti a girare l'Italia, a rinunciare a famiglie, radici, diritti. Il tutto mentre gli studenti, nelle classi, hanno bisogno di continuità, di volti noti, di maestri veri, non di passaggi a livello.
Questa è la realtà. Ed è una vergogna.
Abbiamo bisogno di un punto fermo. Di una svolta vera, non di un'altra toppa su un sistema che cade a pezzi. Il doppio canale di reclutamento non è una parolaccia: è una proposta seria. Vuol dire riconoscere chi ha già dato, chi ha già vinto concorsi, chi ha già insegnato. Vuol dire smettere di usare la precarietà come strumento di governo e iniziare a costruire una scuola che non viva solo sulle spalle della buona volontà.
Perché, cari politici, cari burocrati, cari "esperti" di riforme infinite: non si può costruire un futuro con docenti che non sanno se lavoreranno l'anno prossimo. Non si può educare alla legalità, se lo Stato per primo aggira le sue stesse promesse.
Questa non è più solo una rivendicazione di categoria. È una questione di civiltà. Di coerenza. Di giustizia.
Non servono nuovi concorsi. Servono scelte coraggiose. Servono leggi che rispettino chi ha già dimostrato di saper fare il proprio mestiere. Serve una riforma strutturale, non l'ennesima toppa per tirare a campare fino alla prossima legislatura.
Serve il coraggio di riformare, il coraggio di cambiare, il coraggio di restituire dignità a chi lavora per costruire il futuro delle nuove generazioni.

