La verità scomoda dei fanghi velenosi: la “terra dei fuochi” che non fa rumore
di Mario Garofalo
Ci risiamo. E non è la prima volta. Puntualmente, quando un grammo di rifiuto si muove a Sud del Garigliano, si sollevano polveroni mediatici degni di una fiction apocalittica. Inchieste, speciali, opinionisti in giacca e cravatta pronti a declamare sentenze. Ma se gli stessi crimini ambientali si consumano a nord della Campania, nell'opulenta e insospettabile pianura padana, il silenzio è assordante.
Parliamone, allora. Perché è il momento di farlo. Non con spirito di rivalsa, ma con l'onestà di chi fa informazione senza confini geografici. In Lombardia — sì, proprio lì, a pochi chilometri dalla Campania — è emersa quella che potremmo definire senza esitazioni "terra dei fanghi velenosi". E non si tratta di una metafora.
I numeri parlano chiaro: 150.000 tonnellate di fanghi contaminati da metalli pesanti, idrocarburi e acido solforico — residui di batterie esauste — sono stati smaltiti illecitamente in terreni agricoli destinati alla produzione alimentare. Un'operazione che avrebbe generato oltre 12 milioni di euro di profitti illeciti. Cinquemila camion carichi di veleni. Altro che fertilizzanti.
Il centro dell'inchiesta è una società bresciana, la WTE, con tre stabilimenti operanti nel trattamento dei rifiuti. Doveva trasformare i fanghi in materiali idonei all'uso agricolo, sanificandoli. Invece, secondo gli inquirenti, la società li trattava in modo sommario — o per nulla — aggiungendo persino acido solforico per disfarsi dei residui pericolosi. Poi li spacciava come "gessi di defecazione", un eufemismo tecnico per bypassare controlli e normativa ambientale, per poi riversarli in campi coltivati, spesso all'insaputa degli agricoltori.
E allora la domanda sorge spontanea: se tutto questo fosse successo a Giugliano, a Casal di Principe o nella Valle del Mela, cosa sarebbe accaduto? Le stesse televisioni che oggi ignorano il tema avrebbero mobilitato troupe e droni, politici indignati in visita sul posto, e talk show in prima serata con esperti, moralisti e predicatori del riscatto del Sud. Ma ora, che succede? Nulla. Nessun allarme nazionale, nessun hashtag, nessun appello a reti unificate.
È ora di dire le cose come stanno: l'illegalità ambientale non ha latitudine. Le terre avvelenate non appartengono solo al Sud. Il crimine ambientale è sistemico, diffuso, spesso nascosto sotto l'apparente ordine e benessere di certi territori che amano darsi l'aria di modelli. Eppure qui, in questo caso, il modello si è rivelato marcio fino al midollo. Sei aziende agricole compiacenti — cinque bresciane, una cremonese — hanno accettato quei veleni nei loro terreni, a caro prezzo. Perché il dio denaro non conosce confini né geografie.
L'inchiesta è appena all'inizio, ma già racconta tanto. Racconta un Paese che tollera due pesi e due misure. Un Paese che si scandalizza solo quando conviene e che guarda altrove quando l'immagine pulita del Nord rischia di incrinarsi.
E allora raccogliamo pure l'invito di quella "associazione del piffero del Nord" che ogni anno non manca occasione per puntare il dito contro la "Terra dei Fuochi". Lo facciamo, ma con una domanda che brucia: dove eravate quando nel vostro giardino si coltivava veleno?
Vergognatevi. Ma davvero, questa volta.
