Memorie/Italo Turri: La poetica dell'assenza
di Rocco Zani
Nell'aprile del 1995 la scomparsa dell'artista che per molti fu il "lunatico dell'innocenza".
Italo Turri non l'ho mai incontrato.
Eppure talvolta accade che il "peso" di una conoscenza compiuta - capace oltremodo di tracimare in annotazioni affettive e umorali - possa limitare le pretese del sogno o addirittura porre margini a rappresentazioni meno essenziali. Restano i resoconti della bocca trasmessi per curiosità o indiscrezione, ovvero per sottolineare la stranezza dell'uomo, quel suo incedere bizzarro, il rifiuto delle parole tediose, l'ira di certi giorni, la frenesia, il rifiuto. Eppure tali immagini rimanderebbero ad una sorta di liturgia sanguigna, confinata, inevitabilmente di facciata.
Ed è forte la tentazione - di molti - di collocare Turri al di fuori dello scenario, comunemente inteso, di un'arte necessariamente contemporanea. Come se la sua personalità - il suo no incorruttibile ai guasti del quotidiano, la sua poetica assenza - lo ponesse fatalmente ai margini di un'arte cosiddetta colta.
Avremmo avuto per lui, forse, un sentimento ringhioso o di accomodante sopportazione. Come lo è, oggi, per i diseredati e gli oziosi, per chi non segue lo sciame di un'integrazione a tutto tondo. Per chi, ancora, ha lo sguardo disincantato e sorride lieve alle nostre armi e alle nostre battaglie. O, forse, avremmo provato invidia per gli stessi motivi e per l'incapacità - questa volta tutta nostra - di astenerci, di rifiutare, di navigare lungo nuove coste.
La mancata conoscenza dell'uomo sembra condurci invero verso un'analisi di esclusivo pronunciamento artistico, rigettando la passione e l'emozione per un incontro e precludendo ogni presumibile condizionamento. Avrei voluto, in poche parole, isolare e commentare la sua presenza pittorica su valenze esclusivamente narrative, formali, cromatiche. Avrei voluto, ancora, rimarcare l'essenziale giudizio storico, centralista, inespugnabile dalle periferiche attrazioni dell'immaginifico.
Ma non è così. Perché la pittura di Italo Turri ha il dono curioso di ribadire - oltre ogni eventuale indizio - i termini di una storia intima ed epocale al contempo, autobiografica e sconfinata, di quartiere e metropolitana. Come se l'occhio del pittore cogliesse, nel suo libertario incedere, le miserie frettolosamente riposte, le rotte della polvere, la noia dei giorni consumati, la compagnia del vuoto. Ovvero l' inconfessabile timore di sopravvivere.
C'è, nelle fessure di biacca e vermiglio che rimescolano la certezza della
città annerita il tentativo - appena abbozzato - di immaginare solarità
inaccessibili, bambinesche aspirazioni. Ma la sequenza delle geometrie che
dettano il tempo e i gesti, i segni - appena percettibili - di un'umanità fuggiasca sembrano cogliere quel male di
vivere che è l'unico, smisurato convincimento, del nostro andare.
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