Milano, un 22enne resta invalido dopo un’aggressione: il fallimento culturale che la politica finge di non vedere

20.11.2025

di Paolo Scarabeo

C'è un ragazzo di 22 anni, uno studente universitario, che non camminerà più come prima. Nella notte del 12 ottobre è stato accoltellato a Milano da un gruppo di cinque coetanei. Non c'è stato alcun raptus, nessuna marginalità estrema. C'è stata violenza pura, scelta, messa in scena e perfino esibita: dopo l'aggressione, gli autori si scambiavano messaggi trionfalistici su Instagram. È troppo facile infilare tutto nella solita retorica del "sono italiani, allora che si fa?". Sarebbe il terreno perfetto per chi vive di slogan. Ma la questione è un'altra, molto più profonda e molto più scomoda: questa è l'ennesima crepa di un'emergenza culturale e civile che la politica continua a ignorare - quando non a sfruttare.

È essenziale distinguere: esiste un grande tema di disagio giovanile in Italia, un fenomeno serio ma che non c'entra nulla con questo episodio. E poi ci sono i delinquenti. Persone che scelgono la violenza, la praticano con lucidità e la rivendono sui social come un trofeo. Confondere i due piani non serve a nessuno. Qui la parola giusta è solo una: delinquenza. E per la delinquenza servono educazione, prevenzione e, quando necessario, punizioni severe. Lo Stato deve ricordarsi di essere Stato.

Il riflesso della politica è sempre lo stesso: è sempre colpa dell'altra parte, è sempre colpa di qualcun altro. E poi il parafulmine: "La scuola deve educare, la scuola deve fare, la scuola deve dire". Certo, la scuola educa. In questi ultimi anni le sono stati sottratti 600 milioni, e ciononostante si continua a trattarla come un salvadanaio da svuotare e a cui pretendere miracoli. La verità è che le comunità si costruiscono fuori dalle aule tanto quanto dentro. E il punto dolente è questo: la società civile ha smesso di sentirsi responsabile. Tutto delegato, tutto scaricato su qualcun altro, come se ci fosse sempre un'istituzione pronta a fare ciò che non affrontiamo più.

Questo vuoto è figlio di un malcostume ormai strutturale: una politica che vive di propaganda invece che di risposte, che gioca a fare l'opposizione anche quando governa, che arriva a delegittimare perfino le istituzioni più alte mentre manda 500 poliziotti in Albania a guardare le stelle. Mentre i ragazzi si accoltellano e filmano tutto, il dibattito pubblico serio è sparito. Chi dovrebbe guidare si limita a urlare. Chi dovrebbe costruire si limita a creare nemici. Chi dovrebbe assumersi responsabilità ne cerca altre da attribuire.

Ogni euro speso in armi dovrebbe trovarne uno investito in cultura, educazione e formazione. È un principio semplice, quasi banale. Ma è proprio nelle cose banali che si misura la credibilità della politica: in ciò che tutti sanno e nessuno fa. Non c'è futuro possibile se non si torna a costruire comunità vere, luoghi in cui i giovani trovino identità, relazioni autentiche, modelli affidabili. Luoghi in cui non si debba "fare la guerra" per sentirsi qualcuno.

Serve una ricostruzione culturale grande, collettiva, che riparta dall'umanità. Non un nuovo slogan, ma un nuovo umanesimo reale. Perché finché non rimetteremo insieme i pezzi della nostra comunità, continueremo a contare le vittime, a scandalizzarci, a indignarci sui social. E a ripartire sempre da zero.

Nel frattempo un ragazzo di 22 anni dovrà imparare a convivere con una gamba compromessa. Lui è la vittima. Gli altri sono delinquenti. E la politica di oggi è colpevole di aver smesso da troppo tempo di proteggere ciò che dovrebbe essere la sua priorità: la vita e la dignità delle persone.

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