Munà. Il viaggio allegorico.

17.05.2021

di Rocco Zani

All'interno di un perimetro immaginifico Munà sembra attraversare idealmente - ma con irrisione davvero autentica - una storia millenaria che è respiro, sguardo, colore e umore di una identità collettiva. C'è il rischio, quando il luogo della memoria pare trasformarsi in irrimediabile consonanza con il proprio vissuto - c'è il rischio, ripeto - che gli archetipi idealizzati prendano il sopravvento anche su ogni nuovo traghettamento.

Il viaggio artistico di Munà pare in effetti consumarsi all'interno di un circuito convenzionale stretto tra stereotipi rassicuranti e vocìo secolare di perdenti, di accordi popolari, di ispirazioni e cromìe consolidate. D'altra parte il "luogo" - come "incrocio di intenti" ha di solito un ruolo che potremmo definire di iniziazione e di incarnazione. Per lo sguardo, per l'ascolto, per il suggerimento a venire. E il "luogo" di Munà è Napoli naturalmente, ma non la napoletanità che è pelle della pelle. Ed è proprio questo indiscusso rifiuto di "tutto ciò che è la città" che conduce Munà ad un ricreazione espressiva in cui i simboli eterni del luogo sembrano perdere la loro originaria propensione per farsi orientamento allegorico e libertario.

In primis il vulcano. Come presenza regolatrice del tempo e dello spazio. Al pari della Luna che ospita sogni e illusioni. Il vulcano che non è terra di confine o piedistallo di timore. Piuttosto "vortice di materie", fiato dormiente, ipotesi di metafore. Munà si appropria della forma, o meglio, del rigore della forma, facendone "allestimento scenico" della narrazione. È un drappo di creta brunito che è di volta in volta sipario, quinta, campitura pronta a dare ospitalità ai cosiddetti attori di scena. Di volta in volta - come in un poetico giudizio - Munà sembra deporre i protagonisti del suo interminabile racconto, la maschera, il Santo, il corno. Come in un epistolario senza fine, capace di sostenere lo sguardo, la forma, la voce di ogni "attore". Ma nel gioco delle parti ideato da Munà ogni presenza è introduzione all'altra. Cuore, fibra, alito o bacio. La maschera, il santo e il corno sono circostanze narrative, memoria, filo di raccordo tra l'immaginifico e il reale, tra il sogno e la barbarie.

E c'è, nella dinamica dell'incedere, un affidarsi ad un resoconto formale in cui il rigore del segno - quasi la sua inclemenza - è regola e comandamento di stesura. Senza mai ormeggiare per frondose raffigurazioni Munà sembra come procedere ad una operazione di "sgombero del superfluo" per affidare alla disciplina - talvolta "spigolosa" - della scrittura il senso intimo del suo narrare. Affinché sia questa la cifra di un probabile "riepilogo". Della memoria, dello sguardo. Della Storia.

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