Poema Cristo Maria... L'ultima perla di Giorgio Mazzanti

12.03.2023

Ricorre oggi il secondo anniversario della salita al Cielo del caro Giorgio Mazzanti, un'assenza che è sempre più abisso nella vita di chi vi scrive, ma legame indissolubile che ancora vive nei testi del caro maestro e amico. Il Poema Cristo Maria è l'ultima perla di don Giorgio, arrivata in libreria poche ore prima della sua salita al Padre... una lettura straordinaria che provo a consegnarvi... 

Che cosa può ancora raccontare un «Cristo umanato all'ancella del Signore che l'ha partorito? Nulla che la madre non sappia già dal momento in cui ha chinato la fronte, in segno di  consenso, dinanzi all'annuncio del messaggero divino. Nulla che il figlio ignori del destino di quella madre che osa dichiararsi «figlia di suo figlio», senza chiedere conto del sacrificio che ha comportato lo scandalo del proprio atto gratuito di amore.

Eppure la trama di questo avvincente poema di Giorgio Mazzanti, pubblicato a ridosso di uno splendido volume di componimenti poetici - quasi il diario esistenziale di un poeta (Luminari. Poesie 1983-1987, 2020) -, si dirama proprio dal misterioso nodo senza fine di quel «segreto accordo», di quel vincolo del «parto in comune», che vive nei secoli, tra la madre, «pura creatura» e il figlio, l'«agnello sacrificale». L'«agnello sgozzato» che vincerà la morte, ergendosi vittorioso come il Cristo di Piero della Francesca. Il racconto è noto e il compito è arduo, ma Giorgio Mazzanti, autore di opere scardinanti (come Da una terra devastata, 1993 o Se tu sei Dio, 2019), oltre che di testi teorici ed esegetici di grande rilievo, ancora una volta sceglie di scompaginare l'ordito di una trama ricevuta, accampando direttamente sulla scena un personaggio monologante - Cristo - a cui farà dire, "senza timore e tremore": «Mi feci Verbo / nel tondo ventre / di Donna». Per questo si è trattato di mettere in sordina la propria voce di poeta e di cedere la parola a un altro io (in realtà, è come se Cristo si appropriasse della voce del poeta per farne un uso evangelico straordinario). 

Nasce da qui l'intenso scenario drammaturgico, a tratti solenne (specie nelle stazioni e nei luoghi della liturgia pasquale: Gerusalemme, Il bacio di Giuda, Il Golgota, l'Orto degli olivi...) e nasce qui il ritmo incalzante dei versi brevi e dialogici. È un "io" assunto a supporto di un "effetto di verità" che risuona lungo tutto il poema e agisce come saldatura tra il mito vissuto - nella prima parte - con quello "rivissuto" (che domina nelle tenere e particolarmente coinvolgenti sequenze del dialogo con la madre, nella seconda parte).

Con ogni evidenza, il poeta sembra puntare di nuovo sull'impianto di un'inedita "incarnazione in presenza" del racconto in versi con cui il poeta-teologo dava la parola a Maria, in uno tra i suoi testi più avvincenti: Io tua madre. Maria si racconta (1995, 2010). Ed è innegabile che quel discorso autoriferito richiami per pathos, verità e immediatezza "l'audacia" strutturale e simbolica del monologo di Maria (un'audacia magistralmente sottolineata da Divo Barsotti nella sua Introduzione al testo).

Ma non conta inoltrarsi nel facile esercizio di una riflessione condotta su due piani, a caccia di parallelismi. L'intrico tra i due poemi è consequenziale: Cristo si rivolge, qui, alla madre e Maria - allora - al figlio, mimando, quasi intridendo, una realtà divina e terribilmente terrena. Ma quella voce di Maria che diceva "io", non replica, non cancella e non sostituisce questa parola di Cristo. 

Al lettore il compito di leggere i due poemi insieme, facendo dell'uno l'interpretazione dell'altro, magari per sondarne la ricchezza dialogica e la messe che ne riceve in dono. Si può credere che il gioco a due faccia parte della promessa estetica e simbolica che il poeta ha riservato ai suoi lettori, chiedendo loro, in contropartita, di entrare "in comunione con il proprio sguardo interiore, capace di cogliere, come per un controcanto lirico, lo sguardo autentico di chi dice "io". È lo sguardo di Cristo che mostra - in questo poema - di non volersi più accontentare del "racconto degli altri" e che, con immediatezza lirica, grazie alla parola poetica, si rivolge alla madre chiamandola per nome (Maria), gridandole infinita tenerezza.

Sappiamo dai Vangeli, anche quelli più "biografici" (di Luca e Matteo), che l'incontro con Cristo è quasi sempre mediato dalla parola altrui (persino le parabole non sono forse un discorso riferito?). Insomma, la figura del Cristo "detta da altri" è quella che risulta più familiare. Qui, invece, il poeta ci offre in cambio un Cristo che si racconta, scombina la fissità ieratica della tradizione liturgica, senza interromperne la filigrana (che lega Avvento a Pentecoste). Anzi la riconfigura, modulandola sul tempo di un racconto che indugia a descrivere lo stupore quotidiano di scene familiari, i propri pensieri, ripensamenti, sentimenti e ricordi.

E questo il modo paradossale con cui il poeta ha finito per re-inventare un Cristo a misura d'uomo, mentre medita sul "franare" della vita e sulla estrema solitudine di chi muore; una creatura che si ri-nomina e, nel reincarnarsi in quanto uomo-Dio, ne rivendica per sé anche l'imperfetta natura («Non in quel grumo di carne / mi sono formato») e, insieme, l'ardire di rivelarsi in una confessione carnale e spirituale di un "io" che prima di essere «pane spezzato» e Padre è stato figlio, creatura foriera di infinito amore per l'umanità. 

Ecco come, in veste di personaggio, il poeta ci consegna un'immagine del Risorto da amare quando rivendica il proprio «esserci», generato («..come uomo / come il vitello dalla madre / nella stalla, oscillante / e voglioso di vita») e quando, con voce carica di pathos, grida lo scandalo dei nuovi Farisei («Vana la toga che indossate, / vano l'ampio manto a coprire...»).

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