Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi.

17.04.2021

di Paolo Scarabeo

Ci sono momenti e situazioni che chiamiamo «crisi», in cui il pozzo della vita si prosciuga. Procediamo nel deserto dell'anima e nella notte del cuore, alla ricerca di nuovi significati e di strade per il futuro. In questi momenti cerca portare uno spiraglio di luce don Francesco Cosentino con il suo ultimo lavoro "Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi", edito dalle Edizioni Dehoniane di Bologna. La sfida che don Francesco intende approfondire con il suo libro riguarda il modo in cui interpretiamo e affrontiamo le crisi della nostra vita e della nostra società.

Uno sguardo ampio, quello del teologo don Cosentino, che si immerge nel cuore dell'esperienza dolorosa e traumatica che tanta parte dell'umanità sta vivendo in questo momento di buio profondo, a partire dal quale immagina un approccio diverso alla «questione Dio». Un tema molto caro al teologo calabrese, a cui abbiamo rivolto qualche domanda, ringraziandolo per la sua squisita disponibilità.

Don Francesco, come può essere la crisi un tempo provvidenziale?

Solo apparentemente questa sembra una contraddizione. In realtà, si tratta di un paradosso che ritroviamo spesso anche nel Vangelo: quando il chicco di grano muore, dice Gesù, porta frutto. Quando tutto sembra perduto, talvolta si coalizzano dentro di noi delle forze nuove, si svegliano in noi un coraggio e un'intraprendenza che erano sopite e sepolte. È per questo che, spesso, i grandi artisti hanno concepito le loro opere più importanti nei momenti di crisi. Tutto dipende dallo sguardo che abbiamo: ogni crisi è un momento in cui la vita si spezza e abbiamo la possibilità di guardarci dentro in modo nuovo. E in ogni crisi, Dio rimane che rimane sempre presente accanto a noi, ci parla e spesso ci indica un orizzonte nuovo.

Possiamo trovare una "buona notizia" anche nel bel mezzo di una esperienza traumatica e dolorosa?

Ritorno al tema dello sguardo. La fede non dà il privilegio di una vita senza problemi o sofferenze, però dona occhi diversi, uno sguardo nuovo attraverso cui leggere e abbracciare il mistero della nostra quotidianità. Anche se tutti guardiamo dalla stessa finestra, scriveva Alda Merini, non tutti vediamo le stesse cose: dipende dallo sguardo. La fede non addolcisce l'esperienza del dolore, ma, tuttavia, ci fa attraversare la notte con un coraggio diverso e ci dona occhi per andare oltre, per farci scoprire la lezione che possiamo imparare dai momenti di crisi.

Ad un certo punto del suo libro Lei scrive: "Mai come in questo tempo, segnato da una pandemia che ha sconvolto l'esistenza di milioni di persone, abbiamo bisogno di immagini che ci aiutino a interpretare il presente e ci indichino le vie da intraprendere con coraggio e libertà". Se dovesse sceglierne una?

Questa domanda mi fa andare con il pensiero a don Tonino Bello, una figura di pastore cui sono da sempre molto legato. Le sue immagini poetiche riescono a commuovere il cuore e sono molto attuali. Ne prendo in prestito una, che in qualche modo richiama il titolo del mio libro: il coraggio di svegliare l'aurora anche nel cuore della notte, nella speranza che "sul nostro vecchio mondo, il rosso di sera non si è ancora scolorito". Mi sembra straordinaria per questo tempo che viviamo.

Le grandi crisi sono anche grandi occasioni: si deve passare il fuoco per uscire purificati, segnati, soprattutto cambiati. Cosa ci occorre?

Tre grandi liberazioni, se così posso dire. Liberarci dalla paura, che ci rinchiude sempre in noi stessi e ci fa fuggire il fuoco della crisi; in fondo, anche nella vita spirituale, preferiamo una vita tranquilla, idolatriamo l'abitudine, fuggiamo il rischio, temiamo le novità. Più che lasciarci scomodare per cambiare, portiamo avanti per inerzia le cose di sempre. E certe crisi arrivano anche per suonarci la sveglia. Liberarci dalla nostalgia: nei tempi di crisi rimpiangiamo spesso i tempi di prima "quando si stava meglio", ma questo è un modo per non vivere la crisi, per restare rivolti all'indietro e perderci l'importanza del momento storico che viviamo. Infine, liberarsi da un falso ottimismo spesso condito di spiritualità: pensare che in fondo la crisi non c'è e che le cose vanno bene perché il Signore, quasi magicamente, le sistema lui. Un grave rischio quando soprattutto come Chiesa pensiamo questo: magari preghiamo perché quella crisi passi e non ci accorgiamo che Dio ce la dona per impararne qualcosa e per avviare un cambiamento.

Questo tempo implica necessariamente una domanda sul cristianesimo e sul suo stato di salute. Come ne uscirà il cristianesimo, quale la posta in gioco per il futuro della Chiesa? Lei afferma "La domanda sul futuro del cristianesimo non deve lasciarci tranquilli", Perché?

Perché la pandemia è stata un'apocalisse, una rivelazione come ha ben scritto Luigi Maria Epicoco di recente. Ha portato alla luce, cioè, tanti aspetti della nostra vita personale e sociale, ma anche tante piccole e grandi crisi che il nostro cristianesimo e la nostra azione pastorale, specialmente in Occidente, vive da tempo e forse non ha voluto affrontare. Ben venga se questo non ci lascia tranquilli: perché il futuro del cristianesimo passa da qui, dalla capacità di fermarci e di ascoltare di nuovo che cosa lo Spirito suggerisce.

Papa Francesco ha auspicato una creatività cristiana capace di aprire orizzonti nuovi. Cosa significa?

Proprio ciò che deve caratterizzare lo spirito di un cristiano, che invece di custodire un museo di dottrine o di norme si lascia sempre toccare dal fuoco vivo del Vangelo. E, perciò, Papa Francesco ci invita a immaginare il cristianesimo, a sognarlo per diventare capaci di esplorare nuove vie, nuovi strumenti per l'annuncio, nuovi linguaggi, nuove forme di ministero e di Chiesa.

Il tema delle false immagini di Dio Le è molto caro, come abbiamo potuto ben comprendere leggendo il suo "Non è quel che credi" ed è tema che merita un urgente approfondimento. Quale Dio, dopo la pandemia?

Abbiamo tristemente assistito a un ritorno di immagini blasfeme e anticristiane di Dio, spesso messe in relazione al peccato e al castigo. Un Dio che invia un virus agli uomini, fosse anche per "avvertirli", è una perversione. È la vera bestemmia contro il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Ma poiché ogni grande momento di crisi e sofferenza ci interroga su Dio - penso ad Auschwitz e alla riflessione teologica che ne è nata - questa può essere un'occasione per ritornare al Dio della compassione e dell'amore: il Dio che soffre con noi e, portando la nostra sofferenza nella sua carne, la trasforma e ci apre alla vita.

Ci siamo ritrovati all'improvviso privati della possibilità di "celebrare l'Eucaristia" e molti laici e sacerdoti per questo sono andati in crisi. Questo ha fatto emergere, forse, - come lei ha scritto - una eccessiva sacramentalizzazione della vita della fede. Quale Chiesa ci attende?

Una Chiesa che non tira a campare. Che non fa le cose perché "si è sempre fatto così". Che sa rivedere anche le priorità pastorali, magari valorizzando di più e meglio l'Eucaristia domenicale e ricominciando una capillare azione di annuncio del Vangelo. Continuo a pensare che in un altro tempo e contesto, si potevano dare i sacramenti e aspettarsi poi una fede sempre più esplicita, aiutata dal contesto umano, familiare e sociale. Oggi abbiamo bisogno di ripartire dalla Parola, di insegnare nuovamente il gusto della preghiera, di fare della comunità il luogo di relazioni e amicizie profondamente umane e, solo dopo, si possono anche celebrare i sacramenti.

Grazie, don Francesco... attendiamo volentieri il prossimo.