Quando gli immigrati eravamo noi: l'oblio di una Italia in fuga
di Mario Garofalo
C'è qualcosa di profondamente stonato nel modo in cui
oggi l'Italia guarda chi arriva sulle nostre coste.
Una dissonanza morale, storica, culturale.
Perché basterebbe sfogliare un archivio di famiglia, una vecchia lettera
spedita dall'America, o guardare una fotografia ingiallita scattata in un porto
del Sud Italia per ricordare che gli immigrati, un tempo, eravamo noi. E in
quei volti, in quelle mani sporche, in quelle valigie di cartone c'è ancora
impressa la nostra identità più vera.
In questi giorni, mentre il dibattito politico si inasprisce intorno ai temi dell'immigrazione, ho sentito il bisogno — il dovere — di tornare alle fonti. Di aprire i faldoni della nostra storia, di rileggere statistiche, manifesti, testimonianze. Di confrontare il nostro presente con un passato troppo facilmente rimosso.
Perché la verità è questa: l'Italia è nata emigrante.
Dal 1861 al 1985, circa 30 milioni di italiani hanno lasciato questo Paese. È un dato che, per quanto noto agli storici, sembra rimasto lettera morta nella coscienza collettiva. Come se avessimo scelto di rimuoverlo, di seppellirlo sotto il tappeto del benessere raggiunto troppo in fretta, e mai veramente condiviso.
Chi erano questi italiani? Non solo contadini analfabeti. Non solo braccianti affamati. Tra di loro c'erano artigiani, piccoli proprietari, donne sole, famiglie intere, soprattutto nelle grandi ondate verso il Brasile, l'Argentina, gli Stati Uniti.
A New York, su Ellis Island, venivano visitati,
umiliati, marchiati. A volte respinti, altre volte segregati in ghetti chiamati
"Little Italy", con la benedizione del pregiudizio. In Australia erano
"l'invasione della pelle oliva". In Belgio lavoravano nelle miniere a
condizioni disumane. In Svizzera li chiamavano "macaroni".
Eravamo gli "altri". Gli indesiderati. Gli stranieri.
Mi chiedo spesso quanto abbiamo pagato quella fuga.
Non solo in termini economici. Non solo nella perdita di forze giovani. Ma sul
piano umano, emotivo.
Partivano in solitudine. Partivano con l'idea di tornare, e spesso non
tornavano più.
Chi partiva era spezzato tra due mondi. E anche chi restava, viveva nella
sospensione dell'attesa, nella nostalgia. Le "rimesse" degli emigranti, sì,
hanno salvato intere economie locali. Ma a quale costo umano?
E mi chiedo anche: perché, oggi, non riconosciamo più quei volti nei migranti che arrivano da noi?
Oggi, nel 2025, l'Italia si ritrova — con un'ironia tragica — dall'altra parte del tavolo. Accogliamo chi fugge da guerre, carestie, dittature. O meglio: non sappiamo più accogliere. Spaventati, chiusi, sordi alla storia.
Eppure, non è passato molto tempo da quando anche noi
scavalcavamo confini senza documenti, elemosinando una possibilità, una paga,
un tetto.
Tra gli anni '50 e '70, l'Italia ha esportato forza lavoro verso Francia,
Germania, Belgio. Molti lo facevano da clandestini, senza contratti, senza
protezioni, senza garanzie. Esattamente come oggi fanno migliaia di ragazzi
africani o mediorientali che si affidano ai trafficanti del Mediterraneo.
È questo il punto: ciò che oggi ci indigna è l'immagine speculare di ciò che siamo stati.
Come cronista di questa testata avverto una
responsabilità.
Quella di non partecipare all'amnesia collettiva che alimenta le paure, che
sdogana il razzismo, che trasforma la cronaca in propaganda. La storia
dell'emigrazione italiana dovrebbe essere un vaccino contro il pregiudizio, non
un capitolo dimenticato nei sussidiari di scuola.
In redazione abbiamo iniziato a raccogliere lettere,
diari, fotografie. Alcune di queste storie sono straordinarie. Un giovane
lucano che parte nel 1910 per Buenos Aires e apre una bottega. Una donna
friulana che emigra da sola a New York nel 1923 e diventa maestra in una scuola
per italiani. Un siciliano che viene linciato in Louisiana perché scambiato per
mafioso, senza alcuna prova.
Sono vicende che ci ricordano che il dolore, l'umiliazione, l'attesa, non hanno
colore né tempo.
C'è una frase che mi torna spesso alla mente, ed è di
Primo Levi: "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario."
Non possiamo comprendere fino in fondo cosa significhi lasciare tutto e
affidarsi al mare. Ma possiamo conoscere, e dobbiamo ricordare. Ecco perché
questa inchiesta è solo l'inizio.
Nei prossimi mesi racconteremo storie vere,
cercheremo gli archivi nascosti, pubblicheremo testimonianze inedite. Perché
nessuno possa più dire: "Non sapevo".
E perché, forse, rivedendoci in quei volti che un tempo salivano sui bastimenti,
potremo finalmente tornare a guardarci negli occhi.

