Quando la legge dimentica la vita: il caso di Palmoli e l’errore che non possiamo ignorare
di Paolo Scarabeo
C'è un mondo al contrario che non è quello di Vannacci. C'è un limite oltre il quale lo Stato smette di proteggere e comincia a invadere.
A Palmoli quel limite è stato superato in silenzio, con un provvedimento scritto in un ufficio e trasformato in azione da cinque pattuglie. Una famiglia viveva secondo una scelta radicale, certo. Senza elettricità, senza acqua corrente, senza gas. Ma viveva. E soprattutto cresceva tre bambini che – fino al giorno del blitz – ridevano, correvano, si abbracciavano. Bambini che stavano bene, che apparivano in quella foto luminosa che oggi fa più rumore di qualsiasi decreto.
E allora la domanda va yard posta, senza paura di disturbare il dibattito pubblico: che cosa hanno visto quei giudici che valesse più della felicità evidente di tre minori?
Cinque pattuglie per una famiglia che vive nella natura. Una sospensione immediata della potestà genitoriale. Un trasferimento forzato in una comunità educativa.
Una reazione sproporzionata, che assomiglia più alla gestione di un pericolo imminente che a una valutazione equilibrata del benessere minorile. Eppure qui non c'erano botte, non c'erano abusi, non c'era abbandono. C'era una scelta di vita – opinabile, sì, ma non criminosa.
La giustizia, stavolta, ha agito come un bulldozer: è entrata nella casa, ha portato via i minori e ha chiesto alla famiglia di dimostrare, a posteriori, di non essere inadatta. Ma da quando la libertà si difende solo se assomiglia a quella della maggioranza?
Il paradosso è lampante. Mentre a Palmoli si mobilitano cinque pattuglie per tre bambini nati in una casa spartana, nelle città italiane ogni giorno vediamo minori ai semafori a vendere fazzoletti, famiglie lasciate sole, che dormono in macchina, bambini costretti all'elemosina davanti ai supermercati, minori al soldo della malavita. Lì lo Stato non arriva, lì l'intervento è timido, "complesso", "da valutare".
Lì non c'è "rischio di incolumità". Ma quando una famiglia rompe lo schema, quando osa non allinearsi, allora sì che la giustizia corre, irrompe, decide. Sembra che il problema non sia il pericolo… ma la diversità.
Il pastore molisano Mario Borraro lo ha detto chiaramente: vivere senza televisione, coltivare il proprio cibo, crescere i figli nella natura non è una follia. È una scelta. Una scelta che migliaia di famiglie italiane – pastori, agricoltori, comunità montane – hanno praticato per generazioni. Non è una vita perfetta. Non è una vita comoda. Ma non è una vita pericolosa. Il punto è che oggi la società tollera tutto, tranne chi cammina fuori dal marciapiede prestabilito.
E mentre il dibattito esplode, ci sono tre bambini che da un giorno all'altro hanno perso il loro mondo. Prima correvano tra gli alberi, oggi vivono in una struttura estranea. Prima avevano un padre e una madre accanto, oggi vedono la madre come una presenza "autorizzata", un'eccezione concessa da un decreto. Questo non è proteggere. Questo è creare una ferita inutile.
I tribunali dei minorenni dovrebbero essere i guardiani della prudenza. Invece, a Palmoli, hanno mostrato rigidità, paura culturale e un'idea di "normalità" usata come metro di giudizio. Un giudice non può sostituire la propria idea di vita alla vita degli altri. Non può confondere scomodità con pericolo. Non può distruggere un equilibrio familiare solo perché non è standard.
La vicenda di Palmoli non è un dettaglio di cronaca. È il simbolo di una deriva culturale. Chi decide che cosa è "una vita giusta"? Chi stabilisce dove finisce la libertà e comincia il sospetto? Chi ha il potere di togliere tre bambini a una madre che li ama, sulla base di uno stile di vita non convenzionale?
La verità, semplice e bruciante, è che quei bambini non sono stati tolti perché in pericolo. Sono stati tolti perché troppo liberi rispetto ai nostri parametri. E questo, per un Paese che si definisce democratico, dovrebbe essere motivo di vergogna.




