Quando la morte diventa uno spettacolo digitale
Il caso di Martina impone delle domande e delle riflessioni, non solo sul fatto di cronaca nera, quanto soprattutto sullo stato di malessere educativo e sociale più profondo che viviamo tutti e in particolare gli adolescenti.
di Anna Paolella
Viviamo un momento storico in cui persino la morte non è più un evento personale e intimo o al massimo corale in riferimento alla propria comunità di riferimento.
Anche la morte è diventata uno spettacolo digitale.
L'assassinio di Martina Carbonaro, la quattordicenne di Afragola uccisa dal suo ex fidanzato di diciannove anni con una pietra - "perché mi aveva lasciato" - rappresenta un esempio terribile, ma chiaro, di come la negazione della vita si intrecci con l'incapacità di elaborare emozioni complesse in una società che ha trasformato ogni esperienza in contenuto condivisibile.
Il caso di Martina impone delle domande e delle riflessioni, non solo sul fatto di cronaca nera, quanto soprattutto sullo stato di malessere educativo e sociale più profondo che viviamo tutti e in particolare gli adolescenti. La caratteristica particolare di quest'epoca della cittadinanza digitale è la difficoltà, non solo per le nuove generazioni, di abitare autenticamente le proprie emozioni senza il filtro dell'apparenza digitale.
La morte, come la maggior parte dei vissuti e dei comportamenti umani attuali, si è trasformata in narrazione pubblica, perdendo la sua dimensione privata e trasformandosi in evento da documentare. Ogni lutto diventa occasione di storytelling, ogni perdita viene racchiusa in una cornice digitale per acquisire realtà. La condivisione non è più un gesto di comunione, ma un'attestazione di realtà e di esistenza. È come se un fatto, per avere la certezza di essere realmente accaduto, avesse bisogno di essere postato.
È come essere davanti ad uno sdoppiamento ontologico tra l'esperienza interiore del dolore e la sua rappresentazione pubblica. Gli adolescenti apprendono che per essere riconosciuti nel loro soffrire, devono renderlo visibile, condivisibile. Il dolore privato, non documentato, perde valore sociale e quindi, progressivamente, anche personale.
La rete, le relazioni online e il consenso dei propri followers diventano l'involucro protettivo che anestetizza la sofferenza attraverso la mediazione tecnologica. In questa dimensione i social media funzionano come filtri emotivi che permettono di dosare l'intensità dell'esperienza, rendendola gestibile ma al contempo superficiale. Questa mediazione crea una distanza di sicurezza dal dolore autentico.
Ci siamo tutti meravigliati della madre di Martina che, nell'attesa dell'ultimo commiato a sua figlia, posta un video in cui ne celebra il ricordo facendosi preparare in una bancarella il suo panino preferito.
Ci meravigliamo per il tempo di un TikTok e pretendiamo di applicare alle nuove piazze virtuali gli stessi criteri di realtà, di ripiegamento su se stessi e di vicinanza fisica ed emotiva dei propri cari che adottiamo nella vita concreta, quella reale per capirci.
Quasi tutti, indistintamente dalle posizioni culturali e sociali, stiamo sviluppando una tolleranza ridotta alla solitudine e al silenzio, condizioni necessarie per l'elaborazione introspettiva. La solitudine, un tempo spazio di crescita interiore, sta diventando un vuoto ingestibile e insostenibile da riempire con stimoli esterni. Il silenzio dell'anima viene percepito come minaccia esistenziale anziché possibilità di ascolto interiore ed analisi di sé.
Di fronte a questa emergenza educativa, diventa imprescindibile e ripensare l'educazione ai sentimenti come pratica trasversale e fondamentale del curricolo formativo. Non si tratta di aggiungere un'ora di "educazione emotiva" all'orario scolastico, ma di rivoluzionare l'approccio pedagogico verso una comprensione più profonda della vita interiore.
La tragedia di Martina ci ricorda che l'educazione non può più limitarsi alla trasmissione di contenuti, ma deve occuparsi della formazione integrale della persona. In un'epoca che promuove l'assenza attraverso la presenza virtuale, è urgente una pedagogia della partecipazione e della prossimità emotiva, per ripensare il modo di imparare a essere presenti a se stessi, agli altri, al mondo.
Non vorrei essere nei panni della madre di Martina quando finirà il clamore dei media e l'esposizione sui social, quando si accorgerà che sua figlia davvero non c'è più.
