Ruanda, 27 anni di indifferenza!

08.04.2021

100 giorni, uno sterminio prevedibile, sotto gli occhi dell'ONU che ignorò le tempestive richieste di intervento e ridusse il contingente di caschi blu presenti nella regione.

di Deborah Ciccone

Ruanda, il paese delle 1000 colline, ci piacerebbe ricordarlo così ma 27 anni fa, la notte tra il 6 e il 7 aprile 1994 un missile proveniente da Kigali, colpì l'aereo su cui viaggiava Juvénal Habyarimana, il presidente del Ruanda insieme a quello del Burundi, entrambi di etnia Hutu.

Nei i successivi 100 giorni si consumò uno dei genocidi più feroci della storia dell'umanità.

Ma questa drammatica e dimenticata pagina della storia recente, ha radici profonde.

In Ruanda, da secoli, convivevano pacificamente tre etnie: Hutu, Tutsi e Twa.

Prima delle colonizzazioni condividevano la cultura, la lingua e la religione.

La divisione etnica però, si affermò con l'inizio della dominazione belga che diede vita ad una netta organizzazione sociale, basata su specifiche caratteristiche fisiche.

I colonizzatori si rifacevano alle teorie razziali, al concetto di superiorità della razza hamitica, imparentata con la razza bianca.

I Twa, rappresentavano appena l'1 % della popolazione, erano di bassa statura, gli Hutu erano di media altezza, mentre i Tutsi erano più alti, i loro lineamenti del volto più sottili.

Questi ultimi vennero ritenuti, per la conformazione fisica, vicini agli occidentali, più intelligenti e adatti a ricoprire ruoli di potere, gli Hutu, di media statura e dalla pelle più scura, vennero destinati, invece, al lavoro agricolo.

La piccola minoranza dei i Twa, non destò interesse nei colonizzatori, fu emarginata perché considerata prossima alle scimmie.

A generare tensioni, odio e divisioni, fu proprio la rigida organizzazione sociale imposta dai belgi che misero in atto un processo di netta categorizzazione su basi etniche e razziali.

Le rivalità dalla fine degli anni '50, portarono ad una sere di gravi avvenimenti che condussero fino a quella notte di 27 anni fa. La notte che diede inizio al brutale genocidio ai danni dei Tutsi.

Il Ruanda diventò un cimitero a cielo aperto, le colline fertili divennero teatro di morte, a colpi di machete, asce, lance e bastoni chiodati, furono sterminati oltre un milione uomini, donne, bambini e bambine.

Nella violenza inaudita si rintracciava una simbologia intimamente collegata alla logica dell'identità. Ai Tutsi venivano tagliate le gambe, i corpi venivano gettati nei fiumi per rispedirli in Etiopia, da dove, per ultimi, erano arrivati.

100 giorni, uno sterminio prevedibile, sotto gli occhi dell'ONU che ignorò le tempestive richieste di intervento e ridusse il contingente di caschi blu presenti nella regione.

La storia dei genocidi insegna, o quantomeno dovrebbe insegnare, che l'etichettamento, l'indifferenza, la demarcazione netta tra vari gruppi porta solo dolore.

Pierangelo Bertoli cantava così: "Non esiste un popolo padrone, non esiste ancora un popolo vincente ma soltanto una massa di povera gente da umiliare e da rendere impotente".

Nel silenzio quasi totale dei media, è ricorso ieri, un tristissimo anniversario, una pagina di storia fatta di torture, morte, massacri, violenza e indifferenza.

L'indifferenza dell'occidente, perché si sa, l'Africa quando si tratta di sofferenze e non di risorse, è sempre troppo lontana, ai potenti della terra non interessava ieri e non interessa oggi.

Ruanda, ci piacerebbe ricordarlo come il paese delle 1000 colline ma la notte tra il 6 e il 7 aprile 1994 iniziò un genocidio che portò alla morte di oltre 1 milione di persone, ci piacerebbe non dover ricordare che non dimenticare è un dovere.  

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