Sigfrido Ranucci e la libertà di stampa ferita

18.10.2025

di Paolo Scarabeo

Nella notte tra giovedì 16 e venerdì 17 ottobre 2025, un ordigno è esploso sotto l'auto di Sigfrido Ranucci, storico conduttore di Report, la trasmissione d'inchiesta di Rai 3. I fatti sono noti: l'auto era parcheggiata davanti alla sua abitazione, a Campo Ascolano, nel comune di Pomezia, vicino Roma. L'esplosione ha distrutto completamente il veicolo, danneggiato anche quello della figlia e colpito parte della recinzione di casa. In quel momento, in casa c'erano lo stesso Ranucci, la figlia e il figlio. "Poteva uccidere chi fosse passato in quel momento", ha detto il giornalista poche ore dopo, con la voce ferma di chi ha ormai imparato a convivere con la minaccia.

L'ordigno, rudimentale ma potente, conteneva almeno un chilo di esplosivo pirotecnico. È stato collocato in una zona non coperta da telecamere, segno evidente di un'azione pianificata. Le indagini, affidate alla Digos e all'Antimafia, sono ancora in corso, ma un fatto è già chiaro: questo è un attentato che va oltre la persona di Sigfrido Ranucci. È un colpo inferto al cuore della libertà di stampa in Italia.

Ranucci non è nuovo alle intimidazioni. Da anni vive sotto scorta. Ha subito minacce, pedinamenti, persino il ritrovamento di una pistola P38 davanti casa. Ha ricevuto decine di querele, spesso pretestuose, da politici, imprenditori, dirigenti, e più volte è stato bersaglio di campagne mediatiche tese a screditarlo. Tutto questo per un motivo soltanto: perché fa il suo lavoro. Perché indaga, racconta, documenta. Perché dà fastidio.

Con Report, Ranucci ha raccontato intrecci torbidi tra politica e affari, corruzione, abusi di potere, speculazioni, traffici illeciti nel mondo dello sport e dell'economia. Ha fatto quello che ogni giornalista dovrebbe sentire come missione: raccontare la verità, anche quando brucia. In un Paese dove spesso l'informazione è schiacciata dal conformismo o dalla paura, Report è rimasta una delle poche voci capaci di respirare un'aria davvero libera.

Proprio per questo, l'attentato contro Ranucci assume un valore simbolico enorme. Non è solo un atto di violenza contro un uomo, ma contro l'idea stessa di giornalismo come servizio pubblico, come spazio critico dentro la democrazia. Quando un giornalista viene minacciato, si tenta di spegnere non solo la sua voce, ma il diritto dei cittadini a essere informati. È l'ombra del silenzio che avanza, lenta ma inesorabile.

C'è in tutto questo un'urgenza che non possiamo più ignorare: quella di riaffermare con forza la libertà di stampa come fondamento della nostra vita democratica. Non bastano le parole di solidarietà, pure importanti e necessarie. Serve una presa di posizione concreta: leggi che proteggano davvero chi indaga, processi più rapidi contro chi usa la querela come arma intimidatoria, un impegno serio da parte delle istituzioni a difendere, non a delegittimare, chi esercita il diritto di cronaca.

Perché il vero rischio, oggi, è che la paura diventi autocensura. Che un giornalista, prima di scrivere, si chieda se valga la pena di esporsi, se non sia meglio lasciare perdere, abbassare i toni, "evitare guai". È così che si spegne lentamente una democrazia: non con un colpo di Stato, ma con il silenzio imposto dalla paura e dalla solitudine.

La politica ha un ruolo decisivo in tutto questo. Non si può gridare allo scandalo quando un giornalista subisce un attentato e, il giorno dopo, alimentare una cultura del sospetto, dell'odio, della delegittimazione. Ogni volta che un rappresentante istituzionale deride, insulta o mette in dubbio il lavoro di chi indaga, contribuisce — anche senza volerlo — a creare il terreno su cui fioriscono minacce e violenza. La critica è un diritto di tutti e fa bene, la delegittimazione, quella no. Quella non è un diritto di nessuno. I politici non sono capipopolo e non possono parlare come tali, né comportarsi da tali. 

Sigfrido Ranucci oggi è il simbolo di una stampa che fatica a respirare, in un Paese dove troppo spesso la libertà di informazione è proclamata ma non garantita. Non serve essere d'accordo con lui, con le sue inchieste o con il suo stile per capire che difendere la sua libertà significa difendere la nostra.

La bomba esplosa sotto la sua auto non ha solo distrutto una carrozzeria: ha tentato di colpire l'idea stessa di giornalismo come bene comune. Tocca a noi, cittadini, giornalisti, istituzioni, reagire con fermezza. Difendere chi cerca la verità è l'unico modo per difendere anche la nostra dignità civile.

La libertà di stampa non è un privilegio di pochi, ma l'ossigeno della democrazia. E quando qualcuno cerca di soffocarla, il dovere di tutti è continuare a respirare, più forte di prima.

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