Una scuola tutta da rifondare

03.06.2022

Così come è serve davvero a poco. Una riflessione sui dati degli apprendimenti degli adolescenti e sui risultati pessimi al concorso per magistrati

Da un po' di tempo stavamo elaborando una riflessione sul come la scuola (non) forma i ragazzi, su come - così com'è - non consegna loro gli strumenti logici e metodologici capaci di favorire una elaborazione personale delle nozioni e portare così ad una corretta formazione. L'occasione proposta dal Corriere della Sera in merito è stato senza dubbio la ciliegina da porre sulla torta della nostra riflessione. 

L'allarme è stato lanciato, la nave sta colando a picco, lentamente senza che nessuno faccia qualcosa di incisivo: così mi pare. Paolo Di Stefano, commentando la notizia secondo la quale metà degli studenti italiani non sarebbe in grado di comprendere un testo scritto, la mette in associazione con l'altra notizia del recentissimo esito del concorso della magistratura: un anno fa, erano 3.797 gli aspiranti a diventare pubblici ministeri o giudici per 310 posti. Conclusa la correzione di tutti gli scritti, all'orale si presenteranno soltanto 220: cioè appena 5, 7%. Il motivo? Il commissario d'esame Luca Poniz, pubblico ministero di Milano, afferma che, nella scrittura degli elaborati, ha riscontrato «schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, scarsa originalità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica». La scuola italiana, dunque, non è in grado di sviluppare abilità essenziali come la capacità di scrivere un testo argomentativo o di altre tipologie?

Negli atenei italiani ci sono da anni dei veri e propri corsi di recupero delle competenze di base come la comprensione del testo, la scrittura, la grammatica: si tratta dei cosiddetti Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi). Trovare le ragioni di questi due fatti apparentemente lontani (adolescenti e gli aspiranti magistrati) richiederebbe un'analisi psico-socio-culturale, che chiamerebbe in causa anche branche delle neuroscienze e della psicologia cognitiva. Come docente, ho cercato di trovare una risposta per meglio orientare la mia azione didattica. Qualcosa mi pare di aver capito da un interessante saggio di Davide Crepaldi: «Neuropsicologia della lettura. Un'introduzione per chi studia, insegna e o è solo curioso» (Carocci, 2021). Ma come cittadino mi chiedo: quali saranno gli effetti collaterali di questo fenomeno tra dieci e vent'anni? Veramente è in gioco la tenuta democratica del nostro Paese? La lingua italiana è lo strumento di decodifica della realtà e crea i presupposti della rappresentazione della realtà per ognuno di noi. In un illuminante artico reperibile sul web, che si intitola «I ragazzi di oggi non sanno pensare. Alcune riflessioni di antropologia della scrittura», Gabriele Pallotti già nel 1998 scriveva che lo studente può avere imparato la grammatica normativa, addirittura dell'italiano colto di un testo colto, «ma non ha ancora imparato del tutto a pensare da alfabetizzato: il suo pensiero è ancora dinamico, un flusso continuo di idee che ha bisogno della presenza di un interlocutore per essere interpretato, contestualizzato, definito, pieno di formule fisse e di riferimenti vaghi. L'incompleta alfabetizzazione gli preclude la possibilità di trattare le idee come oggetti, manipolandole, raggruppandole, mettendole in ordine, e il suo testo risulta il tipico prodotto di un pensiero orale o semi-orale». Dunque, è un problema vecchio, che la scuola deve affrontare, con la collaborazione dei risultati della ricerca più avanzata. Ma come fare?

Fare a scuola una didattica mirata alla lettura e alla scrittura, ovviamente. Bisogna però puntare sulla formazione iniziale dei docenti e su criteri meritocratici di selezione e reclutamento del personale docente. Forse l'azione didattica può essere un baluardo contro la mancanza del «pantareismo» linguistico-cognitivo, che trova la sua più manifesta e tangibile nella scrittura di un testo. Perciò mettendo banalmente in fila i pezzi di questo puzzle, come docente, un po' azzardatamente, ritorno a porre in evidenza la proposizione della «neoquestione della lingua italiana», che non riguarda solo la scuola ma l'intera cittadinanza, in quanto ha un sostanziale diretto effetto: la nostra libertà è in mano ai giudici che esercitano il terzo potere dello Stato. Inoltre, grazie alle parole di Luca Poniz, che ha constatato, come in una radiografia, negli elaborati scritti quanto riportato nel virgolettato prima, ho ulteriormente declinato questo aspetto cognitivo, conseguenza di letture un po' selvagge e anarchiche, in un nuovo fenomeno che, peccando di presunzione, mi piace ribattezzare con un neologismo, ovvero «pantareismo» linguistico-cognitivo, che trova una sua collocazione idonea nella società liquida di Bauman.

Forse questa è una lettura semplicistica, che deve essere ancora approfondita, ma un altro -ismo nella lingua italiana, per richiamare un saggio di Capuana, male non fa. Infine, nell'editoriale di Paolo Di Stefano, si mette in luce che sia l'ala conservatrice sia l'ala progressista delle toghe hanno smesso di fare i consueti battibecchi, per «accusare» Poniz di essere stato troppo severo e stretto nella correzione degli elaborati: «Come quei genitori che non trovano di meglio che prendersela con il professore quando il figlio viene rimandato». Ha fatto benissimo Poniz, dato che si trattava di futuri giudici. Non è il caso invece della scuola, dove bisogna recuperare tutti per portarli ad un livello accettabile di competenza linguistica e, dopo due anni di Dad, valutare anche l'impegno degli alunni. Se qualcuno di loro farà il concorso da giudice, forse ci ringrazierà.

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